Ho trovato questo libro molto divertente. All'inizio l'inanellare gli aneddoti riprendendoli dopo poche pagine mi ha dato un vago senso di vertigine, ma capito il gioco mi sono lasciata andare e sono riuscita a godermi la lettura. Illies ha messo su un piccolo divertimento intellettuale, perché riesce a far assaporare la temperie culturale e, in parte, politica presente in Europa alla vigilia della prima guerra mondiale. Il libro è centrato sulla scena mitteleuropea (con la conseguente necessità di dover cercare alcuni nomi sull'enciclopedia), ma più che un difetto mi pare una chicca, perché mi ha permesso di scoprire artisti che ho intenzione di approfondire.
Ricordare i singoli episodi raccontati (devo dire con arguzia) è impossibile, ma quello che rimane alla fine della lettura è la meraviglia per un clima culturale ricco, variegato e stimolante e l'impressione di trovarsi a cavallo tra un mondo vecchio che sta per sgretolarsi e qualcosa di nuovo ed inaspettato da cogliere al volo, al ritmo di una modernità vertiginosa.
"E' il primo istante del 1913. Un colpo echeggia nella notte scura. Si sente un clic, le dita si tendono sul grilletto ed ecco l'eco sorda di un secondo sparo. La polizia allertata arriva in fretta e arresta subito il cecchino. Si chiama Louis Armstrong.
Il dodicenne di New Orleans voleva dare il benvenuto al nuovo anno con una pistola rubata.
La polizia lo mette in cella e il 1° gennaio lo spedisce di prima mattina in riformatorio, nel Colored Waifs' Home for Boys. E' così turbolento che il direttore dell'istituto, Peter Davis, non sa che pesci prendere e istintivamente gli mette in mano una tromba (ma avrebbe tanto voluto dargli un paio di ceffoni). Ed ecco che Louis Armstrong d'un tratto ammutolisce, prende lo strumento quasi con delicatezza e sente di nuovo il freddo metallo sotto le dita che la notte precedente giocavano ancora nervose con il grilletto della pistola, ma, invece di uno sparo, nella stanza del direttore strappa già alla tromba i primi suoni caldi e selvaggi".
Questo libro è una vera goduria.
Se fossi uno sceneggiatore o uno scrittore in crisi mi ci tufferei a capofitto. Questa è una miniera inesauribile di storie pronte per essere rubate e ri-raccontate.
Per noi è il 15-18, per il resto d’Europa fu il 1914 l’anno di inizio. E questa idea di raccontare l’orlo del baratro non dalla parte della politica ma della cultura, beatamente inconsapevole, è bello . E interessante è anche la trama che intesse, saltellando da Kafka a Mann, da Picasso a Duchamp. Occorre una discreta cultura generale per apprezzarlo e dopo un po’ anche un bel po’ di pazienza.
Senza contare le sue fisse per artisti sconosciuti, il gioco dei 12 mesi alla fin fine non ha benzina sufficiente e il tutto diventa noiosissimo. Aneddoti inanellati senza un filo comune che non sia quello cronologico e quindi di insostenibile leziosità.
Ci prova a essere brillante (la nascita dell’estasy e Luis Armstrong che impara a suonare la tromba), ma non è mestiere.
Sei mesi sono belli, divertenti, ricchi. Un anno intero stanca.
Viene inventata l’ecstasy. Esce il primo numero di Vanity Fair. Hitler, Stalin, Tito e Trockij sono per qualche tempo a Vienna, contemporaneamente. Albert Schweitzer parte per l’Africa. Nella giungla peruviana viene ritrovato il Machu Picchu. Piero Ginori Conti comincia a sfruttare l’energia geotermica a Larderello. Louis Armstrong si esibisce per prima volta, tredicenne, in pubblico, con la banda del riformatorio. Charlie Chaplin recita nel suo primo film. La Ford inizia a produrre con la catena di montaggio. Guglielmo II vieta il tango agli ufficiali dell’esercito. Apre a Milano il primo negozio di Prada. In un libro inglese di proverbi si legge per la prima volta “Una mela al giorno, etc. etc.”. Viene ritrovata la Gioconda. Escono le prime opere di James Joyce.
E, in questa estate 2014 di piogge, vale la pena di ricordare che anche il quell’anno l’estate fu bruttissima – anche se Musil, nell’Uomo senza qualità parlerà, licenza poetica, di un agosto assolato.
Il 1913 è l’ultimo anno dell’Ottocento. L’ultimo anno della Belle Epoque. L’anno in cui la febbre della modernità raggiungerà l’apice. Ma è una febbre letterale, sintomo di una malattia. Che sfogherà nella Grande Guerra.
Questo libro gustoso ci racconta di Kafka, Rilke, Thomas Mann, Kraus, Freud, Jung, Wittgenstein, Picasso, Döblin, Schönberg, Alma Mahler.
Lo sciovinismo e l’antisemitismo strisciano. La nuova generazione denuncia i propri padri in un ideale parricidio. Le storie dei grandi dell’arte, del pensiero e della cultura sono storie di alcool e depressione ma, soprattutto, di una vita sessuale “di tutto e di più”: omosessualità nascoste da matrimoni di facciata, ménage à trois accettati di buon grado da tutti i partecipanti, passioni insane, fino all’estremo di Georg Trakl e della sua relazione incestuosa con la sorella.
Il libro non è a tesi. Ma non impedisce di pensare, alla fine, che la Grande Guerra non fu un caso. Al di là degli interessi militari e dei nazionalismi, c’era qualcosa di malato. Troppe depressioni. Troppe passioni. La modernità non era stata interiorizzata in modo ordinato.
Unico limite, inevitabile, è l’impostazione centrata su Germania e Austria. Resta la curiosità di leggere un libro analogo scritto da un autore italiano, per sapere qualcosa di più sui pettegolezzi – che oggi riguardano calciatori e soubrette, allora erano le storie di grandi letterati, pittori e scienziati – di casa nostra, alla vigilia del disastro.
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