La donna che mi ha sposato deve decidere quale libro illustrato regalare a non so quale delle bambine che la adorano. “Le piacciono i libri di viaggio”. La libraia “Ho un bellissimo libro di mappe.” Lei “No, non le piace la geografia.” I bambini per viaggiare non hanno bisogno della geografia.
Si mette a sfogliarne a decine, alla fine sceglierà un libro su Van Gogh (“È stato il primo artista con cui abbiamo giocato”, dice, e mi dice pure “Io la mia dose di bambitudine me la prendo sul lavoro; sei tu che non so come farai, se non avremo figli nostri.” Io intanto mi rifornisco direttamente da lei).
Mi metto a curiosare anche io, ci vogliono cinque minuti per leggersi questi illustrati ai quali i bambini possono affezionarsi per un’età intera, e al di là dell’estro meraviglioso dei disegnatori, comincio a notare un filo conduttore: i libri per bambini parlano tutti di solitudine, o comunque di forme più o meno dichiarate di incomprensione e di emarginazione.
In questo c’è un bambino che trova un dodo, cioè un amico, cioè una creatura ormai data per estinta dai più.
Con la bellezza delle immagini e la lieve poesia dei testi leggeri si prova a dire ai bambini che la solitudine non è la verità esistenziale come sembra che sia, è solo un tempo di attesa, un errore di prospettiva.
Più che ai bambini che le leggeranno, mi viene da pensare agli adulti che le hanno pensate, queste storie, a come pensano siano i bambini, a come devono ricordarsi la loro, di età bambina, sognante e fatata soltanto per chi non si ricorda quanti mostri immaginari o no la minacciano, la offendono, la estinguono.
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