Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?... La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?
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Ogni società genera il tipo di impostura che, per così dire, le si addice.
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I quattro stadi dell’impostura dell’abate Vella: burla; ricerca di un vantaggio materiale; consapevolezza del potere sugli altri; amore della propria impostura divenuta opera letteraria (e scevra, ormai, di ogni venalità e ricatto).
Il romanzo dell’impostura progressiva di Giuseppe Vella sarebbe bastante ma non si accontenta Sciascia e lo intesse in una storia d’impostura che viene da lontano, storia siciliana.
Scuotere, scuotere dall’immobilità la Sicilia dell’immobilità, con un’impostura che ha almeno il pregio di essere letteraria, poesia.
Altri direbbe alla storia: io dico alla favola...
Con un’impostura, con l’arroganza inevitabile di un viceré, con la rivoluzione giacobina per spazzar via la grande impostura: baroni, feudi, privilegi, pure quello di uccidere, far uccidere e proteggere chi ha ucciso beneficiati dall’intangibilità. In una parola? Mafia. Sciascia è restio a farla cadere nei suoi romanzi ma il concetto risuona familiare (altro che Unità d’Italia tradita, sostengono alcuni con argomenti persuasivi, la mafia è cosa più antica, il barone che teneva in scacco il viceré, cioè lo Stato, soggiogava la plebe e alla bisogna la scagliava contro il viceré, cioè lo Stato).
Sciascia racconta una storia siciliana, metatemporale. D’accordo, la colloca, un racconto ancorato al tempo meglio si ancora al lettore. Sceglie tanto più un’epoca per eccellenza di cambiamento: tempesta che passa senza lasciare segni là dove gli edifici sono solidi e la pioggia se la fanno scivolare via.
Ha sbagliato Francesco Paolo Di Blasi? A sperare? A voler spazzar via Stato e antistato invece di cambiare il primo per spazzar via l’altro? A credere che tanti avrebbero risposto? Non risponde Sciascia, osserva: la fine di un uomo solo, archetipico a Palermo.
Qualche uomo solo si salva. Hager, pagando il prezzo dell’onestà che non ha voce: la dolente impotenza e repugnanza dell’uomo onesto di fronte alla prepotente menzogna, quel ritrarsi che appare di confusa colpevolezza ed è invece di disperata innocenza. È una querelle storiografica, d’accordo, ma la metafora è perfin troppo rumorosa.
A suo modo si salva il rivale Vella, che almeno ha capito, un passo alla volta, ha capito, che la tortura era sempre stata lì ma quando colpisce un amico ci si accorge della sua presenza e disumanità; che non poteva mettersi a livello di quelli che voleva burlare prima e poi spaventare avallandone l’impostura; che il bello della sua, di impostura, è che è poesia, favola, inoffensivo simulacro dell’impostura perenne, che da sola si alimenta e rigenera e non ha bisogno che tutto cambi per non cambiare nulla.
A volte più semplicemente basta che non cambi nulla perché nulla cambi.
(Desolante.)
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...ContinuaImbrogli e congiure nella Sicilia delle due Sicilie.
Un grande Sciascia ci racconta una grande impostura.
L’”arabica impostura”, realmente accaduta, è quella architettata alla fine del Settecento a Palermo da Giuseppe Vella. Miserevole cappellano dell’Ordine di Malta che si arrangia facendo il numerista del lotto, essendo più o meno l’unico in città a conoscere un po’ di arabo viene improvvisamente chiamato a fare da interprete per un dignitario del Marocco riparato in Sicilia dopo un naufragio. Il cappellano non si lascia sfuggire l’occasione, e prima fa passare un libro arabo sulla vita di Maometto per una preziosa storia della Sicilia che lui si offre da tradurre, poi se ne inventa un altro sulla conquista normanna dell’isola in cui si farebbe luce sulla fondatezza dei privilegi dei baroni.
Ma l’impostura non è solo un misfatto dell’avido cappellano, coinvolge tutta la società siciliana. Già, perché all’opera partecipa l’intero mondo palermitano, da monsignor Airoldi che ambisce a passare alla storia come mecenate di grandi studi storici ai baroni che sostengono e si ingraziano il falsario per esser sicuri che la storia che sta traducendo rinsaldi i loro privilegi. Insomma, quello del Vella «non è un volgarissimo crimine, è uno di quei fatti che servono a definire una società».
Alla fine la vicenda del Vella si incrocia con quella dell’avvocato giacobino Di Biasi. Personaggi agli antipodi: il Di Biasi cospiratore di una rivoluzione che in nome della Ragione sovverta il feudalesimo baronale; il Vella, diventato ormai abate, colpevole soltanto della «parodia di un crimine, un crimine che la Sicilia consuma da secoli». Non a caso il giacobino verrà decapitato dopo orrende torture, mentre il Vella per essere incarcerato dovrà autoaccusarsi, e dopo trattative e offerte di fuga finirà per scontare quindici anni più per la sua volontà di «vedere dove si va a finire» che non per la punizione della sua mistificazione.
«”In effetti” disse l’avvocato Di Biasi “ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice”».
...ContinuaTirar giù dalla libreria gli i grandi autori siciliani del '900 e leggerli è sempre una delizia, Sciascia, Bufalino, Pirandello, Quasimodo, Consolo, dove sono i vostri eredi? Non possiamo certo accontentarci di un pur piacevole Camilleri, sarebbe un po' come paragonare i Lunapop ai Pink Floyd.
Il Consiglio d'Egitto è innanzitutto "L"etteratura, poi è anche storia, romanzo e rielaborazione di usi e costumi del popolo siciliano, i cui tratti distintivi si sono, nel bene e nel male, conservati negli ultimi due secoli e forse più.
Giuseppe Vella e l'avvocato Di Blasi, protagonisti eccezionali di questa narrazione, esulano peraltro dalla loro collocazione "geo-storica" ed impregnano con la loro complessità contraddittoria, il romanzo di un'umanità vera, che rende quest'ultimo uno degli esemplari più riusciti delle creazioni sciasciane.