Ed eccomi, ancora una volta, a commentare un romanzo di Simenon.
L’ultimo che avevo letto, Colpo di luna, non mi aveva entusiasmato, non ci avevo trovato il miglior Simenon, mentre in questo caso posso senza dubbio dire che Il grande male mi ha fatto ritrovare il mio vecchio amico, con le sue torbide atmosfere e la sua personalissima visione del male.
Il personaggio della vedova Pontreau è la rappresentazione della determinazione, tutta al femminile, di proteggere a qualunque costo il suo “nido”, che ho virgolettato per il retrogusto romantico che questa parola porta con sé, lato che in questa donna forte e spietata non è presente nemmeno in latenza.
Fredda, dritta, imponente e imperturbabile, madame Pontreau agisce sempre con logica matematica, precisa e tagliente come un bisturi. È padrona. Padrona della sua casa, delle sue tre figlie, di qualunque possibile emozione e si erge a padrona della vita e della morte anche.
La particolarità di questo romanzo di Simenon, piuttosto breve in effetti (e qui potrebbe essere il suo unico difetto), è che la storia, quella profonda, quella risolutiva, non viene raccontata, affiora appena da qualche immagine buttata lì, oppure si svela di riflesso ad azioni di apparente poco conto.
Un gioco di rimandi dunque, dove lei, l’assoluta padrona anche della scena, si muove come un gatto, sempre sicura, mai titubante. Non un solo momento di turbamento si legge sul volto o nell’anima della vedova Pontreau. E sarà un’altra donna a bilanciare la figura dispotica della protagonista, una domestica un po’ squilibrata, che vive di grandi agitazioni, di rabbie, di scoppi e che si proporrà come il suo alter ego a voler confermare la presenza del doppio, firma immancabile del Simenon romanziere.
Una storia di donne, dunque, vittime, carnefici, complici, ribelli ma mai semplici spettatrici.
Questa volta la penna di Simenon agisce da moralizzatore, sarà la storia a farsi portatrice di giustizia, una giustizia che sarà ingiusta, che avrà l’insopportabile implacabilità del contrappasso.
E il contrappasso è molteplice, visto il contrasto tra la figura della figlia maggiore Hermine, che rimarrà inchiodata alla madre come un Cristo alla croce, e quello della figlia minore, Viève, condannata al rimpianto ma libera.
Lo sguardo di Simenon non è mai banale, e, pur andando lungo sentieri conosciuti, riesce sempre a sorprendermi per quell’assoluta scorrettezza che me lo fa amare tanto.
Come tutti i libri di Simenon , anche questo lascia in bocca un sapore amaro, fatto di verità nuda e cruda è come se si mangiasse del fiele, con la consapevolezza che in fondo è così che va..
Un'assassina rimane impunita, eppure per questa donna non si prova repulsione o disprezzo, ma si resta lì a guardarla o "leggerla", (a volte è lo stesso) e quasi la si ammira perchè le persone che sanno chi sono e cosa vogliono sono terribili, eppure solo loro sanno "vivere" e non lasciarsi travolgere dalla vita che con le sue mani ti fa volteggiare in pazzi balli senza musica
Una storia di omicidio in ambiente rurale.
Quasi, più che l'intreccio in sé, resta impresso il modo meraviglioso in cui Simenon trasporta il lettore in quel luogo, in quel tempo.
Sembra quasi di poter frequentare quel bar, camminare per quelle strade, in quei giardini.
Simenon è un grande.
...ContinuaIl grande male a cui si riferisce il titolo e' l'epilessia di cui soffre Jeans Nalliers, giovane fragile, minuto e dagli occhi stanchi che non ha ancora raggiunto i trent'anni di eta'.
E' estate, c'e' la trebbiatura del grano, c'e' una fattoria immersa nell'afa ed e' proprio qui che viene trovato, ai piedi di una finestrella del granaio, il cadavere di Jeans.
E' stato il male di cui soffre a causare accidentalmente la sua morte? Oppure la mano dell'uomo?
Con questo romanzo Simenon si conferma ancora una volta un maestro nel descrivere paesaggi, atmosfere e soprattutto psicologie umane, con una scrittura evocativa che cattura da subito l'immaginazione del lettore crea un noir che vede cone protagonista una figura di donna fredda, decisa e spietata al cui potere dominante soccombono tutti gli altri personaggi, una figura che mi ha ricordato la protagonista de "la domatrice" di Agatha Christie.
Ancora una volta Simenon dimostra di non avere la benche' minima fiducia negli esseri umani (e da una parte non lo si puo' biasimare piu' di tanto).
Una storia torbida e cupa con una morale finale: chi fa del male al prossimo lo vede ritornare tutto su di se'.
Bisogna andarci cauti con il grande Simenon. Non si può affermare alla leggera che un suo romanzo, ancorché breve, sia irrisolto. E tuttavia, a mio sommesso giudizio, questa volta è proprio così. Il delitto viene commesso già nelle prime pagine: e sappiamo subito chi è l'assassino. Poi, si tratterà di capire come questa donna - e qui riconosciamo il merito all'autore - gestirà il delitto e l'inevitabile ostilità che il solo sospetto produrrà contro di lei. Un intero paese, compatto, che trova l'occasione di farle pagare il palese disprezzo che ha sempre mostrato contro i suoi compaesani. Ma non le perdonano neppure l'alterigia, la sicurezza di sé, il rifiuto di "mischiarsi", di condividere alcunché.
Ed è questa, forse, la parte più interessante del libro. Le vicende appaiono banali, finanche il suicidio della figlia resa vedova; anche la fuga della figlia minore non fornisce pathos o coinvolgimento.
Gli anni passati, i furori sopiti, il ritorno della figlia che, da clandestina, visita i luoghi della sua gioventù, hanno il sapore triste delle minestre riscaldate.