Il “Tesoro delle Sante Croci” è un insieme di oggetti a carattere sacro custoditi “ab immemorabili” nel duomo di Brescia. Il termine “Tesoro” qui deve essere inteso in senso strettamente spirituale. Si tratta del più prezioso “tesoro” di reliquie esi Il “Tesoro delle Sante Croci” è un insieme di oggetti a carattere sacro custoditi “ab immemorabili” nel duomo di Brescia. Il termine “Tesoro” qui deve essere inteso in senso strettamente spirituale. Si tratta del più prezioso “tesoro” di reliquie esistente in Brescia. Esso è dal cinquecento collocato nel duomo vecchi, esattamente nella cappella absidale di sinistra, costruita appositamente per salvaguardare il “tesoro”, nel XVI secolo dall’architetto Piantavigna. Presiedevano e presiedono al culto ed alla custodia del tesoro i Confratelli delle Sante Croci, 300 probiviri bresciani, che assolvo a tale compito perlomeno da sette secoli. I sacri oggetti venivano gelosamente salvaguardati entro un monumentale cassone di ferro munito di tre chiavi, una affidata al Vescovo di Brescia, una al Sindaco ed una al Presidente della confraternita dei Custodi della Sante Croci. Tale tradizione è ancor oggi conservata, anche se le casse ferrate sono state sostituite da moderne casseforti e sistemi di allarme.Quando e come giunse a Brescia il “tesoro” delle Sante Croci”?Intorno alla presenza in città di questo monumento di arte e religiosità, nel corso dei secoli sono fiorite le più disparate leggende. Si sa di certo che il tesoro è menzionato per la prima volta in una nota degli Statuti di Brescia, databili a circa il 1260. L’opinione più accreditata dagli storici moderni, in assenza di documentazione anteriori, è che esso pervenne da Bisanzio dopo il sacco di Costantinopoli perpetrato dai Veneziani nel 1204. La presenza del vescovo bresciano Alberto da Reggio all’assedio di Diamata (1221) e la sua nomina a Patriarca di Antiochia, sembrano essere indizi che conformano la tesi del saccheggio costantinopolitano. Tuttavia questo contraddice l’acuta analisi iconografica e artistica operata dal Panazza sulla stauroteca, da lui assegnata ad ambienti lombardi del secolo XI. La questione è ancora parta e rischia di rimanerlo. Recentemente la Custodia delle Sante Croci in collaborazione con i Civici Musei di Brescia e l’Università Cattolica, ha promosso un’ulteriore ricognizione del tesoro tesa contribuire o perlomeno orientare la risposta ai quesiti ancora insoluti della provenienza e dell’epoca.Del tesoro fanno parte essenzialmente 4 oggetti:1. La croce-reliquia, è il vero oggetto di culto. Si tratta di una piccola crocetta in legno a doppia traversa, rivestita sulle terminazioni da smalti geometrizzanti resi su alveoli in oro massiccio. Il Gaetano Panazza, insigne storico dell’’arte locale, la data certamente al X secolo in ambiente bizantino.2. La stauroteca, si tratta della piccola cassetta in legno, rivestita in argento e dotata di un coperchio scorrevole, in cui veniva riposta fino al XVI secolo la croce reliquia. E’ opera complessa che pone numerosi problemi circa la datazione. Evidenti influssi bizantini si confondono con altri di chiara ispirazione lombarda, o perlomeno occidentale. Essa raffigura sul coperchio una Crocifissione, mentre all’interno sono resi con minuzioso cesello le figure dei Santi Costantino ed Elena, rinfiancanti l’incavo che accoglieva la croce-reliquia. Il Panazza data l’oggetto al XI secolo e lo dice lavoro lombardo.3. Il reliquiario. E un monumentale lavoro d’argenteria commissionato dal Comune di Brescia nel 1477 ad uno dei grandi orafi lombardi: Bernardino delle Croci da Parma. Egli costruisce uno dei capolavori dell’arte orafa protorinascimentale dell’alta Italia. Profonde nel reliquiario il meglio della sua arte: dal cesello, alla fusione, dagli smalti alla filigrana. L’oggetto si imposta su di un piede a otto archi inflessi e su un doppio ordine architettonico anch’esso ottagonale, che evoca gli edifici a pianta centrale che a quel tempo proliferavano in Lombardia. La minuta, doviziosa decorazione a filigrana e riporti. Collocata su fondi in smalto verde e azzurro non riesce a decomporre del tutto l’impostazione architettonica dl manufatto, che conserva intatto il fascino di oggetti che segnano il trapasso tra gotico e rinascimento. Fino al quarto decennio del 500 la croce-reliquia veniva infissa, sic et simpliciter, sul vertice del reliquiario. Nel 1532 il comune di Brescia delibera di commissionare all’orafo Giovanni Maria Mondella una legatura ed una teca che riparasse e custodisse la crocetta. Egli la esegue in oro puro e pietre preziose, adornando le legature con motive fitomorfi e teste di cherubino. Il reliquiario era così completato, anche se non riesce a celare la discontinuità stilistica tra basamento e teca.4. La croce dell’orifiammaE’ la croce che verrà posta sull’altare papale.Si tratta di una croce processionale, che assume questo strano nome perché issata su un’asta da cui pende il vessillo dell’orifiamma, immediata derivazione dal gonfalone francese cosiddetto dell'abbazia di Saint- Denis e così chiamato poiché formato da uno stendardo rosso disseminato di fiammelle dorate. Tuttavia va aggiunto che l’interpretazione più comune sta nel fatto che la croce bresciana è “croce fiammeggiante d’oro”, sia per i materiali preziosi che la compongono, sia perché con il suo prezioso scintillio ha costituito punto di riferimento per i devoti bresciani, che in essa scorgevano un simbolo della città stessa.Numerose sono le leggende fiorite intorno all’origine di questa croce e dell’intero tesoro delle Sante Croci, tuttavia non suffragaste da alcuna seria testimonianza storica. Si va dalla donazione fatta direttamente da sant’Elena al Vescovo Gaudenzio in occasione del suo pellegrinaggio in Terra Santa, fino a chi sostiene sia stata ideata del Vescovo bresciano Alberto, Patriarca di Antiochia e legato pontificio in Siria, comandante dei Bresciani durante l’assedio di Diamata (1221).C’è chi la vuole donata, assieme alle altre reliquie, da un certo Conte Namo, vassallo di Carlo Magno, che insediatosi a Brescia, si convertì dopo il miracolo dell’essudazione del sangue dalle reliquie dei Santi Faustino e Giovita, Patroni della Città. Altri la dicono donata da Eugenio IV, al Patriarca di Antiochia, che a sua volta la donò al vescovo di Brescia Paolo Zane. Tutte queste leggende e tradizioni, non fanno altro che sottolineare come essa sia ed è nel cuore dei Bresciani ad un tempo oggetto di un culto sentito e simbolo eminente della loro genuina tradizione culturale.Comunque sia, la Croce dell’Orifiamma è da collocarsi all’interno di un clima culturale e spirituale che segna il trapasso tra la religiosità altomedievale a quella medioevale vera e propria, inaugurata dalla Riforma Gregoriana. Basti osservare come nel suo insieme la croce segni il discrimine tra le “Cruces gemmatae”, di ispirazione barbarica e bizantina, a quelle invece “figuratae”, in cui l’attenzione si sposta dai frutti della redenzione, - qui simboleggiati da un tripudio di gemme, alcune delle quali veri e propri reperti d’epoca romana -, al Redentore, ora ritratto all’apice del momento salvifico. Tuttavia, il messaggio di salvezza proclamato dalla croce, va oltre e si approfondisce in suggestioni teologicamente pregnanti. Sul recto ed in apice sono raffigurati il sole e la luna, simbolo di quelle tenebre che calarono sulla terra alla morte del Redentore, ma anche rimando velato all’universalità della redenzione stessa, che si estende per tutto l’arco del tempo, dell’ultimo tempo. Esso si concluderà con il ritorno di Cristo, l’agnello senza macchia, che giudicherà i vivi ed i morti: ecco che sul verso sta proprio, all’interno di un clipeo, il mistico agnello, volto a destra, e quindi in posa benigna. L’universalità diacronica della redenzione è ribadita anche da quella figura posta sotto il cristo: si tratta di un uomo fasciato, in cui molti vedono la figura di Adamo, collegamento alla leggenda dovuta a San Girolamo, che vuole il Cristo crocifisso sulla tomba di Adamo, le cui ossa vennero redente dal sangue di Gesù morente. Egli non è più raffigurato come il Christus triunfans, come in altre croci coeve quali quella di produzione limosina custodita al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Qui è in evidenza il Christus patiens, nel verismo delle sue piaghe e nel tentativo, ingenuo, di dar consistenza e pesantezza al corpo sacrificato piagando in posa poco naturale gli arti superiori. Accanto gli stanno dolenti: Maria e Giovanni, quest’ultimo riconoscibile per l’evangeliario; anche in questo caso la croce si fa messaggio di salvezza, una salvezza che passa attraverso la maternità della Chiesa, prefigurata in Maria e nell’apostolo prediletto.Dal punto di vista tipologico, la croce si presenta come un probabile riadattamento d’una croce d’altare, di foggia greca e a bracci patenti, alla quale è stato innestato, al termine del braccio verticale, un ulteriore segmento che permette l’aggancio all’asta processionale. Ciò spiegherebbe anche la presenza di numerose reliquie collocate all’interno della croce stessa, la cui esistenza si è scoperta in occasione dell’ultimo restauro avvenuto nel 1957 da parte dell’orefice milanese Agostino Figini.Cronologicamente la croce dell’Orifiamma è da assegnarsi alla fine del XI o agli inizi del XII secolo, come ha ben dimostrato l’approfondito studio di Gaetano Panazza, a cui si debbono gran parte di queste note. Lo studioso vede in essa dei contatti con manufatti coevi prodotti in area renana, ma nel contempo non può esimersi da raffronti con oreficerie lombarde, quali le croci di Vercelli e Pavia (sempre del XII secolo) e con un evangeliario di pertinenza dell’abazia di Nonantola. In sostanza essa pare da attribuirsi ad un anonimo orefice operoso in Italia settentrionale tra XI e XII che secolo, tuttavia, recepisce stilemi d’oltralpe. ...Continua Nascondi