Viaggiare nel vicino Oriente ancora un secolo fa circa era un'impresa da mercanti o avventurieri; ma tra le varie mete possibili quelle più pericolose e proibite erano i luoghi santi dell'Islam, la Mecca e Medina. Laddove oggi, se non vado errato, esiste un formale divieto agl'infedeli di recarvisi, decretato dalla monarchia saudita che funge da custode delle città sacre, nei secoli passati nessuna legge avrebbe impedito ai semplici curiosi di unirsi ai pellegrini musulmani: ma gli stessi fedeli di Maometto dissuadevano i pochi ardimentosi con cui erano in buoni rapporti dal tentare l'impresa, per il fondato timore che i pellegrini più esaltati, fiutando il sacrilegio, riducessero a malpartito l'imprudente viaggiatore. Alla Mecca infatti nessuno andava da solo e alla spicciolata, come sovente accadeva invece per i pellegrini che si recavano nei santuarî cristiani: si dovevano attraversare deserti e montagne, gli uni e gli altri infestati da beduini avidi e violenti, che in sostanza si mantenevano in vita facendo i grassatori di carovane; inoltre il pellegrinaggio islamico va fatto in una data precisa: per questo motivo tutti i resoconti raccolti in questo libro riferiscono di viaggi in gruppo, o per mare fino a Gedda o per via di terra. Quale delle due risultasse la scelta meno perigliosa non è facile decidere: le navi erano gusci di noce sovraccarichi, governati da tipacci spesso inetti nell'arte marinaresca, ma col pensiero fisso di strappare tariffe da ladroneccio per il trasbordo; le carovane erano organizzate dal pascià d'Egitto e da quello di Damasco, i quali a volte prendevano parte di persona al pellegrinaggio (nessun padiscià turco invece si allontanò mai da Costantinopoli per fare l'hajj rituale: o cagione il viaggio scomodo e lungo o per paura di congiure durante l'assenza dal palazzo), ma se pure si era ricchi e provvisti di servi e di qualche comodità, si trattava pur sempre d'una prova non da poco; parecchi pellegrini si ammalavano lungo la strada o quando si trovavano nei luoghi santi: ma d'altronde i dottori della legge assicuravano che morire alla Mecca e a Medina apriva le porte del paradiso, e cadere per via recandovisi equivaleva per meriti al martirio per la fede. In questo gustoso volume Attilio Brilli ha raccolto un manipolo si resoconti tutti da fonti in inglese (ma qualcuno per via di traduzione) a parte il più antico, in un saporoso italiano, scritto dal bolognese Ludovico da Varthema, che con la complicità d'indigeni da lui corrotti si finse un mamelucco, e come tale seguì in qualità di guardia armata la carovana di Damasco nel 1503; uno dei pochissimi a riuscirci, come poi, nell’Ottocento, l’inglese Richard Francis Burton, il celebre traduttore delle Mille e una notte, capace di farsi passare per medico afgano grazie alla sua eccezionale abilità di poliglotta (qualche scritto viene invece da studiosi o viaggiatori che andarono in Arabia ma non fino alla Mecca, di cui però ricevettero notizie coeve di prima mano: sebbene restii ad acconsentire che gl’infedeli la visitassero, infatti, i musulmani la descrivevano loro volentieri senza problemi): gli altri occidentali furono quasi tutti europei convertiti all'Islam per amore o per forza. La spiegazione dei rituali plurimi cui ci si doveva sottoporre una volta giunti alla Mecca, e la conformazione stessa della città, variano poco da un secolo all'altro: la Mecca era un luogo poco piacevole, poco abitato, del tutto inadatto all'agricoltura: si animava soltanto nelle settimane del pellegrinaggio, e per il resto vivacchiava con ciò che aveva ricevuto dai pellegrini. Gli edifici non erano neppure paragonabili per magnificenza e gusto alle chiese europee: e, a parte il santuario della Kaaba, coi suoi portici e l’enorme velario di seta rabescata, spesso si presentavano anche mal tenuti; per giunta, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento gli sceicchi wahabiti fecero distruggere molti sacelli cari alla devozione popolare e le tombe dei santi musulmani sepolti nei paraggi: pratica che i loro seguaci stanno perpetuando tuttora con intatto zelo in altre terre islamiche. L'impressione più viva e forte perciò non era destata dai monumenti, quanto dalla folla stessa che vi si assiepava intorno: una turba immensa, benché nemmeno paragonabile a quelle che vi affluiscono ai nostri giorni (o a quelle medievali: che però saranno più mitizzate che reali), in gran parte concorde nello zelo e nella commozione; qua e là però, anche durante il sermone del cadì sul monte Arafat, che segue la visita alla Kaaba, gruppetti di soldati ottomani fumano e ciarlano, i bettolieri smerciano caffè e bevande rinfrescanti, e i cammellieri pensano ai loro affari; poi, appena termina il rito sacro, tutti si precipitano alla rinfusa sgomitando, spesso perdendo compagni e cavalcature: e fioccano le risse, che quando va bene si limitano a pugni e sberle. Credenti genuini o finti nella legge coranica, tutti questi autori ad ogni modo avvertono con forza il fascino di tanto fervore collettivo dall’intensità esotica e barbarica, e lo guardano con partecipazione commossa, sia pur qua e là venata d’ironia o disagio. Ad esso si congiunge in alcuni osservatori la pungente curiosità per il pittoresco, che si esprime in sapide pennellate di colore nella descrizione di tende, selle, armi, vesti e comportamenti: anzi, traspare sovente un gusto che potremmo definire autenticamente etnografico, rispettoso d’una cultura lontana sebbene anche provvisto di capacità critica, come quando si mettono in luce le grossolane disorganizzazioni che rendevano tanto malagevole una pratica dopotutto ripetuta ogni anno. Insomma, per chi avverta il fascino dell’esotico e d’un Oriente favoloso e scomparso, si tratta di pagine davvero piacevoli, anche perché spesso, quand’anche vengano da mano di autori con poca educazione letteraria, gli occasionali impacci stilistici sono ampiamente compensati dal calore dell’esperienza viva.
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