Alcuni anni fa un giornale mi chiese di immaginare un'utopia sulla base dei miei desideri e di scriverci sopra un articolo. Colsi l'occasione per scrivere di getto un pamphlet contro l'allevamento industriale intensivo. Anche il redattore responsabilAlcuni anni fa un giornale mi chiese di immaginare un'utopia sulla base dei miei desideri e di scriverci sopra un articolo. Colsi l'occasione per scrivere di getto un pamphlet contro l'allevamento industriale intensivo. Anche il redattore responsabile sembrò all'inizio entusiasta. Dopo una consultazione con il suo caporedattore, però, mi pregò di inserire alcune modifiche, per esempio cambiare la frase «quello che mangiamo più volentieri sono i cuccioli» in «quello che mangiamo più volentieri sono gli animali più giovani».
«Ma è proprio questo il punto!» esclamai al telefono. «Scaloppine di vitello, maialini da latte, polli di sei settimane – sono tutti cuccioli! Al massimo sono il corrispondente dei teenager! Se scrivo “animali giovani”, nessuno sussulta più sulla sedia». E cito Bernhard Grzimek che di proposito, parlando del nutrimento degli animali, non usa mai termini come “divorare” o “pascolare”, ma solo “alimentarsi”. Il cocciuto caporedattore disse di non saperne nulla, non ci mettemmo d'accordo e rimandammo la discussione a un'altra volta. Le settimane seguenti il giornale mise in atto uno smarcamento telefonico quale mi è capitato di sperimentare solo due volte in vita mia, una quando ho cercato di avere un visto dall'ambasciata nigeriana e l'altra quando avevo provato a parlare con un mio ex che mi doveva diecimila euro. Se parlavo con la segretaria, il redattore era “fuori sede”; se incautamente rispondeva lui in persona, mi diceva con aria concitata che doveva scappare, che aveva una riunione convocata d'urgenza «…subito, proprio ora… no, mi dispiace, mi dispiace» e riattaccava. Alla fine decisi che era meglio sopportare la mutilazione e l'annacquamento del mio articolo piuttosto che rischiare che non venisse affatto pubblicato. Perciò la volta successiva dissi alla segretaria: «Sono Judith Hermann». Lei mi passò regolarmente la linea e, quando il caporedattore rispose, gli dissi subito che non me ne fregava niente di quanta fretta avesse, che doveva starmi a sentire per due minuti. Quindi gli garantii che avrei messo da parte il mio stupido orgoglio letterario e che d'ora in avanti sarei stata collaborativa, pregandolo caldamente di dare alle stampe il mio articolo.
«Ah… bene» replicò lui, «però sa, nel frattempo ci sono stati altri tre colleghi che – indipendentemente l'uno dall'altro – hanno trovato alcune sue espressioni troppo forti, specialmente, è ovvio, l'immagine dei cuccioli. Ora per risolvere questo nostro problema interno – anche tenendo conto delle sue importanti e decise obiezioni – probabilmente ci vorrà un po' più tempo di quanto ne abbiamo prima dell'uscita del prossimo numero. Per la settimana successiva abbiamo già in programma un altro testo in quello spazio, e lo stesso per quella dopo. A settembre, però, potrebbe essere possibile… al massimo a ottobre».
C'è bisogno di dire che il mio articolo non è mai stato pubblicato? Non riuscivo a spiegarmelo. Dopotutto si trattava di una rivista liberale, rispettabile e con una tiratura extraregionale che, per quanto ne sapevo, rifiutava di pubblicare inserti pubblicitari che avessero a che fare con la vendita della carne. Perché era cosi importante per loro che un animale nato da poco non venisse chiamato cucciolo, bensì animale giovane? Perché, usando concetti diversi per la stessa cosa, ci tenevano tanto a mantenere una netta distanza emotiva rispetto agli animali, quando poi il termine in questione è di uso comune anche nel linguaggio scientifico?
Nessuno zoologo serio oserebbe oggi attribuire all'uomo una posizione di assoluta preminenza nel regno animale. L'uomo è un animale, senza dubbio un animale intelligente, ma soprattutto un animale. Più precisamente un vertebrato. Guardatevi con calma una radiografia della colonna vertebrale umana. È evidente che siamo vertebrati. Per la precisione, mammiferi. Guardatevi sotto la maglietta. Per essere ancora più precisi: «Nel sistema zoologico l'uomo appartiene alla classe dei mammiferi, ordine dei primati, sottordine haplorrhini». Così è scritto nel Brockhaus. Che altro? Fatevi una passeggiata allo zoo, andate a trovare i cugini e le cugine tenuti prigionieri dietro le sbarre. Maledizione, ci somigliano!
Eppure, benché la parentela non possa sfuggire, e benché ormai faccia parte del nostro patrimonio di conoscenze acquisite il fatto che uomini e scimpanzé abbiano un patrimonio genetico coincidente al 98,4%, non sempre è facile per noi riconoscere i nostri pelosi parenti come tali, per non parlare dei parenti squamati e mucosi. Pochi sanno che la coincidenza del nostro patrimonio genetico con quello del topo raggiunge addirittura il novantacinque per cento. Perfino con un verme, il caenorhabditis elegans o filaria, abbiamo in comune il settantaquattro per cento dei geni. Non c'è molto da meravigliarsi. «Tutti gli esseri che hanno vissuto su questa terra derivano da un'unica forma originaria» scrive Darwin. I nostri antenati erano scimmie i cui progenitori erano mammiferi simili a piccoli roditori. E gli antenati di questi strisciavano con zampe da salamandra nella melma e sgusciavano fra le alghe. E i loro avi erano organismi monocellulari che scorrazzavano nel brodo primordiale del diatrema sottomarino. Dio, che ha voluto farci così, non ci ha creato con un processo separato, ma ci ha fatti seguendo lo stesso schema degli altri vertebrati. Noi siamo, così almeno ci piace pensare, la cosa più interessante che il grande architetto ha costruito con la sua borsa degli attrezzi, ma quelli sono gli stessi attrezzi da cui sono venuti fuori il tricheco, il barbagianni e il vombato. Braccia, gambe, ali, pinne… tutte variazioni di una stessa idea. Le sequenze genetiche che per noi sono in collegamento con la formazione delle braccia fanno crescere al cavallo le zampe anteriori, all'uccello le ali e ai pesci le pinne pettorali. Non c'è bisogno di geni differenti perché crescano arti diversi, così come non c'è bisogno di parole nuove per scrivere nuovi libri. È sufficiente che siano disposte in combinazioni diverse o – nel caso dei geni – che siano messi in funzione o meno dai loro meccanismi di attivazione o disattivazione.
A parte alcuni controrivoluzionari molto determinati e molto esperti della Bibbia, nessuno più al giorno d'oggi mette in dubbio che i nostri antenati fossero scimmie. L'argumentum a contrario – il fatto che di conseguenza noi siamo anche scimmie – lo ignoriamo deliberatamente. Se ci fosse una fondamentale, obiettiva differenza, se esistesse una frattura incolmabile fra l'uomo e gli altri animali, la si vedrebbe dal DNA. Che invece dice proprio il contrario: uomo e animale, identica zuppa. Perciò non c'è niente di strano quando il medico ci prescrive la stessa medicina che il veterinario ci ha dato la settimana prima per il cane. La giustificazione degli esperimenti sugli animali è che a loro si può fare tutto perché sono completamente diversi dagli uomini. Ma i medicinali non si potrebbero sperimentare con successo su topi, ratti, cani, maiali, scimmie, ecc. se non ci fossero numerose ed essenziali affinità fra loro e noi. L'occhio di un coniglio in cui si mette una crema irritante si infiamma in fretta quanto quello dell'uomo.
Condividiamo le nostre caratteristiche, i nostri bisogni, i nostri interessi e le nostre peculiarità con molti animali – respirazione dell'ossigeno, metabolismo, sessualità, fame, sete, dolore, gioia, freddo, paura, rabbia. Le nostre qualità più importanti le abbiamo in comune con tutti, siamo esseri viventi. È evidente che siamo una specie fra tante. Solo che le cose più evidenti e più diffuse, a quanto pare, sono anche quelle che più facilmente si perdono di vista. Nella nostra testa c'è sempre il vecchio mito che siamo qualcosa in più degli animali, un animale più X. E poiché questo fattore X non si trova nel DNA, continuiamo a cercare qualche caratteristica o qualche capacità speciale dell'uomo che, acquisita a un certo punto dell'evoluzione, ci avrebbe consentito di abbandonare il regno animale per diventare un altro, meraviglioso essere di una classe a sé. Come se l'animalità fosse qualcosa da cui è necessario emanciparsi, così come ci si emancipa dalla propria infanzia.
Fino agli anni Cinquanta si credeva, per esempio, che a elevare l'uomo al di sopra del regno animale fosse la capacità di produrre strumenti. Molti animali utilizzano degli strumenti per i loro scopi, per esempio le lontre marine portano sulla pancia delle pietre che poi usano per rompere i gusci delle conchiglie. Solo l'uomo però, si sperava, possiede le facoltà cognitive per trasformare un oggetto in modo da poterlo maneggiare meglio. Gli scimpanzé hanno scompigliato le cose dimostrando di saper spaccare la punta dei rami in senso longitudinale per catturare le termiti. Un'altra teoria dice: gli animali non hanno il senso dell'arte. Come classificare allora l'uccello giardiniere che, dopo aver costruito abilmente il suo riparo con i rametti, lo abbellisce con una penna azzurra disponendola sull'ingresso, poi si allontana un po', osserva la sua opera con la testa chinata da un lato, si riavvicina, mette la penna in un altro posto e continua così finché non è soddisfatto dell'effetto estetico? Allora la capacità di parlare! Non era forse una prerogativa unica dell'uomo? Si credeva che gli animali potessero solo emettere suoni, con grugniti, fischi e digrignando i denti. Intanto sappiamo che esiste un gene di nome FOX2 preposto allo sviluppo del linguaggio umano come del canto degli uccelli. I pappagalli sanno formare parole e ordinarle in modo sensato, gli scimpanzé padroneggiano il linguaggio dei gesti e di recente sono stati scoperti i primi tentativi di costruzione di frasi nei gridi di allarme di un viverride, la mangusta nana, che includono anche un aggettivo che descrive la pericolosità della situazione. È come nella fiaba del coniglio e del porcospino. Ogni volta che la scienza crede di aver trovato una prova dell'unicità dell'uomo, si finisce per scoprire che la stessa abilità esiste da tempo nel regno animale. Perfino il bacio con la lingua esiste anche fra i bonobo, parenti stretti degli scimpanzé. Gli innumerevoli dati sulle capacità cognitive, emozionali e culturali raccolti nel regno animale, per dimostrare la sostanziale differenza qualitativa fra uomo e animale, sono serviti solo a dimostrare che questa sostanziale differenza non esiste. Al massimo c'è un di più o un di meno. D'accordo, nessun animale, a parte noi, sa preparare una salsa béarnaise, ma questa non è una differenza sostanziale. La capacità di preparare un cibo, cioè di trasformarlo, la possiede già il cane che sotterra il suo osso per renderlo più gustoso attraverso la decomposizione. Naturalmente la preparazione di una salsa béarnaise richiede maggiore raffinatezza della sepoltura di un osso, e anche il risultato ha un sapore molto differente, ma sostanzialmente il cuoco e il cane che seppellisce l'osso fanno la stessa cosa: trasformano un cibo per modificarne il sapore.
Ma anche se si trovasse, prima o poi, un carattere fondamentale posseduto solo dall'uomo e da nessun altro animale, perché questa differenza dovrebbe separarci dal regno animale? Perché dovrebbe dimostrare che noi non siamo solo animali con quel particolare carattere in più? Per un'unica ragione: perché è l'uomo stesso a decidere di chi vuole sentirsi parente, a chi vuole essere legato e obbligato, come gli pare e piace.
Mettiamo il caso di dover dare una grande festa, per esempio per la cresima di nostro nipote Sebastian. Naturalmente bisogna invitare tutta la famiglia. L'unico problema è: chi fa parte veramente della famiglia? Non dovremmo invitare anche zia Emmi? Zia Emmi, però, ha un odore un po' sgradevole e fa strani rumori quando mangia. In realtà, a pensarci bene, non è una parente vera e propria, almeno non una parente stretta. È solo acquisita perché ha sposato, per giunta in seconde nozze, lo zio Herbert, morto da tanto tempo. Nessuno ha voglia di invitare la vecchia zia sola, finché al festeggiato non viene in mente che l'anno scorso zia Emmi ha regalato a un certo Marvin, in occasione della cresima, cinquecento euro. Ed ecco che improvvisamente decidiamo di essere più affettuosi e molto meno rigidi sui vincoli di parentela. La cara zia Emmi! Certo che è nostra zia!
Estendere o meno a qualcuno il concetto di parentela dipende spesso più dai vantaggi o dagli svantaggi che la cosa ci procura che dall'effettivo grado di affinità che ci lega. Chi vorrebbe essere parente di un vombatide o di un varano, anche se tutti i dati biologici sembrerebbero attestarlo?
Ma è poi veramente cosi brutto avere un legame di parentela con qualcuno che ha un odore un po' sgradevole o fa strani rumori e si sbrodola quando mangia o magari ha qualche pelo di troppo? Non è molto peggio far parte di una specie che usa la propria notevole intelligenza per prendersi in giro da sola?
Purtroppo non si tratta solo di vanità umana, c'è in gioco un interesse molto più vasto. Chi fa parte della nostra parentela, chi è “uno di noi” gode della nostra solidarietà, può contare sul nostro aiuto, è amato o per lo meno viene invitato alle feste della cresima. Il buon vecchio principio dentro/fuori: quelli che fanno parte del gruppo da una parte, dall'altra “quegli strani tipi là”, che sono esclusi. Abbiamo dei doveri verso chi è dentro; gli altri al massimo ci sono indifferenti, nel caso peggiore li disprezziamo o addirittura li perseguitiamo e li uccidiamo. Per essere esclusi non c'è bisogno di appartenere alla specie sbagliata, a volte basta solo essere del sesso sbagliato, avere il colore della pelle sbagliato, la religione o l'opinione sbagliate. L'esistenza di una frattura basilare tra l'uomo e gli animali, con l'accento sulla diversità e l'inferiorità degli animali, significa non dover considerare manzi, maiali e galline come individui con caratteristiche molto simili a noi, ma sfruttarli come oggetti dominabili e consumabili, privi di anima e di coscienza. Fra l'altro si suscita ad arte l'impressione che tutti gli animali (escluso l'uomo), dalla chiocciola alla tigre siberiana, siano in qualche modo uguali, appartenenti alla stessa categoria.
Prendiamo – come nel famoso gioco della trasmissione per ragazzi Sesamstraße – quattro esseri viventi e mettiamoli uno accanto all'altro, per esempio uno scimpanzé, un gorilla, un uomo e una cubomedusa. Uno di questi esseri non è imparentato con gli altri. Qual è? Be', tre hanno braccia e gambe e un viso con labbra, denti, occhi e naso, mentre il quarto ha il corpo formato da una semicupola gelatinosa e trasparente, da cui pendono filamenti viscidi. Allora, quale di questi esseri è completamente diverso dagli altri tre? La risposta più comune è: l'uomo. È chiaro, gorilla, scimpanzé e cubomedusa sono animali, mentre l'uomo… è un uomo, no? Lo credete sul serio?
Davvero credete che uno scimpanzé abbia più elementi in comune con la cubomedusa che con l'uomo? È assurdo: è come se una cubomedusa affermasse che le cubomeduse occupano il gradino piú alto del regno animale, e che le meduse luminose, i primati, le salamandre e gli scoiattoli appartengono tutti alla stessa categoria di rango inferiore. Ma probabilmente è proprio quello che farebbero le cubomeduse se sapessero parlare come un uomo e farsi anche loro un proprio giudizio sulle cose.
Uno dei pilastri su cui basiamo l'idea della diversità umana è la nostra grande intelligenza. E non è del tutto falso. Con la nostra capacità di calcolare i volumi, di risolvere i sudoku e di riflettere sulle nostre azioni siamo in effetti diversi da tutti gli altri animali – come anche una formica e uno scoiattolo sono diversi da tutti gli altri animali, grazie alle loro particolari capacità. L'homo sapiens è un animale con il cervello particolarmente grande e complesso. Il problema è se la nostra particolarità ci metta davvero cosi in alto nel regno animale da farci dire con valide ragioni di avere più diritti degli altri, o se invece la nostra capacità di riflessione non comporti piuttosto degli obblighi. (Per esempio, quello di usare il nostro grande cervello e di pensare a quello che facciamo agli altri animali.) In modo più furbo che intelligente ci siamo dati la prima risposta: abbiamo piú diritti. Un essere intelligente come l'uomo non si può torturare o uccidere, gli esseri meno intelligenti (= tutti gli altri animali) sì. Non per divertimento, le leggi a protezione degli animali ce lo impediscono, ma se si tratta di mangiarli o di testare dei medicinali è consentito. E perché? Per provare paura, dolore e disperazione non c'è bisogno di particolari capacità cognitive. È estremamente dubbio che un premio Nobel per la fisica (nel campo della meccanica quantistica) di fronte alla paura della morte soffra più di un qualunque sempliciotto. Un maiale, quando capisce che sta per essere ammazzato, grida e cerca di difendersi con la stessa disperazione che mostrerebbe il premio Nobel. Ancora oggi si discute se le facoltà psichiche degli animali siano sostanzialmente diverse dalle nostre, o se lo siano solo per grado e quantità. Io me lo sono sempre chiesta anche a proposito dei miei ex, senza mai trovare una risposta.
Fra l'altro, il confine fra istinto e ragione non è cosi netto come qualcuno vorrebbe. Se si sta nuotando in mezzo al verde Atlantico e all'improvviso da destra arriva a grande velocità uno squalo, non fa molta differenza se si è un uomo o una foca. I pensieri che ci passano per la testa in quel momento non sono pensieri veri e propri, sono solo sensazioni di puro terrore. Dorothee Frank, nel suo libro Menschen töten, descrive i minuti che hanno preceduto l'esecuzione della coppia Ceausescu: «Quando i soldati legano le mani dietro la schiena all'anziano “conducator” e a sua moglie per condurli alla fucilazione nel cortile della caserma di Târgoviste, Elena Ceausescu comincia a strillare con la sua voce acuta da vecchia. Una voce che fa pensare a quella di un ratto o di un animale simile che, in preda all'angoscia della morte, urla la sua protesta e al tempo stesso si rende conto dell'assurdità delle sue grida; quel tono di voce penetra nell'anima, è impossibile fare a meno di provare un'irritante mescolanza di disgusto e di compassione».
Qualunque differenza psicologica ci sia fra noi e gli altri animali, in punto di morte si riduce al minimo. È importante riconoscere le somiglianze. È importante sapere che siamo animali. Uccidiamo più facilmente qualcosa che è diverso da noi, piuttosto che qualcosa che ci somiglia.
[...]
La produzione di carne è antieconomica. Ci vogliono da sei a ventisei calorie vegetali per ritrovarsi sul piatto una caloria di un coniglio, di una bistecca o di una cotoletta. Perciò mangiare carne significa anche annientare gigantesche quantità di generi alimentari, con le quali si potrebbero nutrire da sei a ventisei volte di più la gente che muore di fame.
[...]
Come ha detto Hannah Arendt: «I peggiori criminali sono quelli che rinnegano il pensiero».
Quando lo scandalo diventa quotidiano, la tentazione è pensare che non ci sia più bisogno di rilevarlo. Ciò significa però che la nostra stessa quotidianità è uno scandalo e che c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel nostro modo di vivere.
[...]
Un po' alla volta mi sciolgo. Vorrei ancora chiedere a mio cognato se lui ha deciso consapevolmente di mangiare quello che mangia, se ritiene che qui a tavola ci sia una sola persona che di fatto ha deciso quello che mangia, o se qui ognuno mangia quello che gli è stato messo davanti, quello che mangiavano i suoi genitori e i suoi nonni, senza mai porsi domande.
[...]
A quanto pare un'idea nuova attraversa sempre tre fasi: prima viene derisa, poi osteggiata, e infine tutti la trovano ovvia e non si ricordano nemmeno che prima le cose stavano diversamente. Non sarebbe male, una volta tanto, essere all'avanguardia. La diceria che l'alimentazione vegana è dannosa per la salute perché fa mancare all'organismo proteine, vitamine e ferro è dura a morire. Molte persone in segreto si augurano che essa non sia possibile, solo perché non vogliono ammettere che abbiamo una scelta fra crudeltà e distruzione ecologica da una parte e la possibilità di smettere semplicemente di mangiare carne, derivati del latte e uova dall'altra. C'è perfino un campionato mondiale vegano di body-building. Proteine e ferro infatti si trovano anche nei cereali e nei legumi, e siccome i vegani mangiano molta frutta e molte verdure, finiscono per assumere anche la vitamina C, che addirittura favorisce l'assimilazione del ferro. In fondo l'unico problema è la vitamina B12. È importante per la formazione del sangue, per il ricambio cellulare e per la funzionalità delle cellule nervose. La vitamina B12 può essere formata solo da microrganismi come lieviti o batteri che vivono nell'apparato digerente degli animali o sulla superficie della frutta e della verdura non lavata. Nei prodotti vegetali non ce ne sono a sufficienza, mentre si trovano in abbondanza nel latte (specialmente nei formaggi), nelle uova e nella carne (specialmente nel fegato). Comunque non se ne può essere assolutamente certi. Gli antibiotici che vengono comunemente usati negli allevamenti industriali possono distruggere a tal punto la flora intestinale di un animale da impedire la formazione di vitamina B12, e allora praticamente anche la carne di quell'animale ne è priva. Kath Clements, l'autrice di Perché vegetariani, raccomanda una dose quotidiana di due microgrammi di vitamina B12, che può essere assunta sotto forma di alimenti fermentati come tempeh, miso e shoyu (qualunque cosa sia), oppure in pillole. Io però non ho voglia di farlo. Da qualche parte su internet ho trovato che il corpo umano ha bisogno solo di una piccolissima quantità di vitamina B12, che può immagazzinare per anni. Un controllo dei valori del sangue ogni due o tre anni dovrebbe bastare.
[...]
Be', insomma, alla fine l'alimentazione vegana non è poi cosi difficile. Nei momenti migliori, vivere senza prodotti di origine animale non mi sembra più nemmeno una limitazione, ma una liberazione dalla melma dello sfruttamento, della distruzione, dell'ingiustizia e della crudeltà in cui vivevo. Da un paio di mesi le galline e i mammiferi non devono più temere niente da me. La macchina della tortura e della morte continua a girare senza freni, ma almeno non per colpa mia.
[...]
La carenza di vitamina B12 c'è dal 1950, da quando nell'agricoltura sono stati introdotti certi prodotti chimici che hanno distrutto le colture di batteri.
[...]
Quando i brahmani introdussero le caste in India, quale misero più in alto, considerandola la più nobile di tutte? Indovinato: la casta dei brahmani. Scelta fin troppo prevedibile per uomini che si credevano istruiti, saggi e mistici. Difficile immaginarne un'altra. La maggior parte degli uomini, a meno che non soffra di gravi depressioni, ha un'opinione piuttosto elevata di sé. Probabilmente non era diverso anche per l'uomo preistorico. Molti antropologi sono del parere che si sia sentito inferiore agli animali più veloci, più grandi e più pericolosi della sua epoca. Io personalmente non ci credo. Una forte autostima nasce indipendentemente dalla realtà di fatto. Senza dubbio l'uomo si stupiva quando un mastodonte camminava maestoso sull'erba, guardava con invidia il falco che gli volava dietro, ma appena sviluppò abbastanza coscienza del proprio io da ordinare e valutare gli esseri viventi e le cose, si alzò, mise i pugni sui fianchi e disse: «Ma il migliore di tutti, il più bello e il più intelligente è l'uomo».
Nessun animale lo contraddisse. Anche Dio giudicò che l'uomo fosse la cosa migliore che aveva fatto. O almeno, i capi religiosi dissero che Dio la pensava così.
Anzi, i capi religiosi che dicevano che Dio la pensava così furono quelli che ebbero maggiore successo. Le religioni che riponevano il senso dell'esistenza umana nel fatto di essere un nutrimento per gli dei o che mettevano l'uomo allo stesso livello degli animali, considerati dotati di anima al pari di lui, non ebbero alcuna chance contro una fede che assicurava ai seguaci che l'uomo è meglio di tutti gli altri. Generato con un atto di creazione a parte, l'uomo si poneva di gran lunga al di sopra degli animali, era al centro dell'attenzione divina e in fondo era la vera ragione per cui era stata messa in piedi l'intera faccenda. Le piante e gli animali sarebbero stati creati solo allo scopo di fornire un piacevole scenario alla vita dell'uomo.
Anche al di fuori delle chiese si è arrivati alla stessa conclusione. Aristotele si espresse così: «Siccome la natura non fa niente senza un senso o inutilmente, è inconfutabilmente vero che essa ha creato tutto per il bene dell'uomo». In psicologia questa si definisce paranoia.
Comunque, se Dio non fosse un Dio giudicante e se ai suoi occhi l'uomo, il regno animale e il regno vegetale fossero tutti uguali, sorgerebbero non pochi problemi. Come si giustificherebbe quello che facciamo a creature che sono al nostro stesso livello? Meglio allora un Dio che crea un ranking, che elegge la superstar del creato e, per caso, arriva alla nostra stessa conclusione: la creatura migliore, la più bella di tutte è l'uomo.
Una volta che nel cervello dell'uomo si è stabilita la convinzione di essere molto meglio di un tritone o di un mammut, si è cercato anche di trovare delle prove. È la normale procedura: prima si capisce come stanno le cose, poi si cerca di dimostrarlo.
Uno dei pilastri su cui si fonda il sentimento di superiorità dell'uomo è l'orgoglio per la nostra intelligenza. Certo, nessun altro animale sa volare fino alla luna, costruire il Golden Gate Bridge e cucinare una Sachertorte, ma anch'io personalmente non so fare nessuna di queste cose e tuttavia spero molto che, per questo, non mi vengano tolti i diritti umani. I neonati, chi ha un forte ritardo mentale e le persone come me non sempre rientrano nella categoria di quelli che incarnano le straordinarie prestazioni dell'homo sapiens.
Il fisico Stephen W. Hawking una volta ipotizzò per scherzo che l'universo abbia prodotto la vita intelligente allo scopo di riflettere su se stesso. Se si attribuisse all'universo questa intenzione per noi lusinghiera, tutta l'evoluzione sarebbe rivolta alla nascita dell'uomo e tutti gli animali sarebbero soltanto un momento di passaggio, una preparazione alla nostra entrata in scena. L'evoluzione, però, non procede né lungo una sola traccia né in una sola direzione. Qui non si parla di una strada lunga e dritta su cui avanza un pesce, che lentamente si trasforma in un anfibio, che un po' alla volta sviluppa pelle e zampe e si raddrizza sempre più finché alla fine non raggiunge la sua meta, diventando una teenager sovrappeso con un sandwich “doppio whopper“ in mano e l'ultimo iPod all'orecchio. Da quest'idea la scienza ha preso da tempo le distanze. L'evoluzione è una crescita a sfera, nella quale i diversi rami si propagano dal centro in tutte le direzioni. Milioni di idee evolutive vengono messe alla prova contemporaneamente, le strutture degli esseri viventi sono in gioco e sulla punta dei rami ci sono tutte le specie attuali, tutte ugualmente legittime, l'una accanto all'altra. L'intelligenza, in tutto questo sistema, è solo un tentativo fra gli altri, una strategia di sopravvivenza fra tante, alla pari dei tentacoli velenosi delle meduse australiane, delle spine sul dorso di un riccio o della capacità di un orso di superare il rigido inverno con il letargo. Nient'altro che un tentativo. E mentre su uno dei rami l'intelligenza degli ominidi continua a svilupparsi, su un altro si perfeziona la vita sociale dei lupi e su un terzo la capacità di volare di un insetto. Come si fa a capire se il Grande Disegnatore ritiene una delle sue creature meglio riuscita delle altre? La loro qualità si misura sempre rispetto a come ogni singola specie si adatta al suo ambiente e a come riesce a vivere. È probabile che l'uomo sia la scimmia più evoluta, ma non è l'evoluzione di un coccodrillo.
Eppure, ha detto qualcuno, se l'intelligenza è solo un'idea dell'evoluzione fra tante e se noi non siamo la meta verso cui tutto si sviluppa, almeno possiamo dire di essere il più evoluto di tutti gli esseri viventi. Questo dovrebbe essere chiaro. Sembrava che la cosa si potesse provare scientificamente in breve tempo. Erano stati contati circa quarantamila geni nell'uomo, cioè molti di più dei miseri seimila di un batterio intestinale o dei tredicimila di una drosofila. Quanti più sono i geni, tanto più si è evoluti, si credeva. Quando poi ci si è accorti che il riso ha circa cinquantamila geni, è stato come ricevere un pugno in faccia. Era dimostrato che l'essere vivente più evoluto era una pianta. La pianta del riso, per la sua strategia di sopravvivenza, aveva preso una strada completamente diversa, ma su quella era progredita molto più di noi. Lo schiaffo successivo per il nostro narcisismo è arrivato quando, poco dopo, si è scoperto che il conto dei nostri geni era sbagliato. Tra gli elementi che erano stati classificati come geni, molti in realtà erano solo delle copie, parti di un gene erroneamente contate come geni compiuti. Si è visto che, a quanto pare, l'uomo possiede solo dai venti ai venticinquemila geni, meno delle comuni erbe dell'orto, come la rucola. L'uomo gioca in serie C, nella stessa categoria del nematode caenorhabditis elegans, che possiede pur sempre diciannovemila geni. E il fatto che poi, nel 2004, siano stati trovati altri diecimila geni umani non è una grande consolazione.
Se non siamo né la ragione della nascita dell'universo, né il fine verso cui tutto si orienta, e se nel grande sistema dell'evoluzione non siamo nemmeno l'essere vivente più evoluto, da dove ci viene la spocchia di crederci i numeri uno del creato?
Be', almeno il fatto che siamo la più vincente e la più potente di tutte le specie nessuno può metterlo in dubbio. Gli altri animali devono adattarsi con fatica al loro ambiente, noi abbiamo sottomesso la terra ai nostri bisogni, costruito case, automobili, strade per le nostre automobili e climatizzatori per le nostre case, abbiamo concimato il terreno e modificato geneticamente le piante. Gli animali pericolosi li abbiamo sterminati tutti, o li abbiamo messi dietro le sbarre, insieme a un mucchio di altri esemplari innocui. Agli animali utili abbiamo bruciato le corna, il becco o la coda a ricciolo, per adattarli ai nostri allevamenti. Quello che ancora non va, sarà presto corretto. E chi ne sente il bisogno e può permetterselo, se vuole, può mettere il riscaldamento all'uscita del garage, così non dovrà mai più spalare la neve.
Senza intelligenza tutto ciò non sarebbe stato possibile. Dunque l'intelligenza non è solo una delle tante idee evolutive equiparabili fra loro, ma la super-qualità per eccellenza. Mezzo milione di anni fa il cervello dell'uomo ha raggiunto la dimensione attuale. Centocinquantamila anni fa è nato il linguaggio. E da centomila anni l'evoluzione dell'homo sapiens può dirsi completata. Centomila anni non sono poi tanti. I dinosauri hanno dominato il nostro pianeta per più di centocinquanta milioni di anni e in parte pensavano ancora con il midollo spinale. Il granchio reale cammina e cammina e cammina da cinquecentocinquanta milioni di anni, a prototipo invariato, sui fondali marini fangosi. Neanche la forma dello spoiler è cambiata. Questo sì che è un successo! Se il successo è segno di elezione, come credono i calvinisti, Dio dev'essere davvero innamorato del suo granchio reale.
In realtà il successo non prova un bel niente, come qualunque scrittore non di successo può testimoniare. Dopotutto non viene in mente a nessuno di definire le erbacce come il culmine della creazione solo perché crescono dappertutto. Sulla terra ci sono quasi sette miliardi di persone. Nel 2050 la popolazione mondiale, con 9,5 miliardi di individui, potrebbe aver raggiunto lo stadio in cui si comincerà a stare stretti. La Cina compra già superfici da coltivare in tutto il mondo, e gli speculatori di tutto il mondo imitano la Cina. Se le risorse continueranno a diminuire, probabilmente ci scanneremo a vicenda. Che una specie animale, grazie alla sua specializzazione, possa in breve tempo arrivare alla sovrappopolazione, fra l'altro, non è una novità. Dopo che hanno divorato e distrutto il loro ambiente, gli animali vincenti di solito muoiono o vengono radicalmente decimati dalle nuove condizioni di vita. La cosa straordinaria per l'homo sapiens è che il suo ambiente coincide con tutto il pianeta. Trasferirsi da qualche altra parte, dopo aver distrutto le basi della nostra vita, non sarà possibile. Quando si arriverà a quel punto, non sarà l'uomo la specie vincente, ma l'essere capace di sopravvivere ai cambiamenti che l'uomo avrà provocato su questo pianeta, cioè lo scarafaggio. Da quattrocento milioni di anni gli scarafaggi hanno superato, grazie alla loro estrema capacità di adattamento e ai bisogni ridotti, le ere glaciali, il caldo, gli spray contro gli insetti e la megalomania umana. Che si tratti di guerra atomica o di catastrofe climatica, lo scarafaggio può farcela.
L'uomo considera volentieri se stesso come un accorto amministratore e organizzatore della terra. Secondo la Bibbia, Dio gli ha personalmente chiesto di sottometterla. Il nostro pianeta, però, non è ancora mai stato amministrato per il bene dell'umanità e tanto meno per il bene degli altri esseri viventi. La storia del successo dell'homo sapiens fin dalla preistoria va di pari passo con la distruzione dell'ecosistema. L'homo sapiens ha infatti distrutto dal settanta all'ottanta per cento dei grandi mammiferi americani come i mammut, i cammelli e i grandi bradipi, prima ancora che fosse inventato il fucile. L'homo sapiens usa il cervello solo dall'alba a mezzogiorno, persegue una soluzione solo quando non gli costa fatica ed è completamente sotto stress quando deve affrontare un pericolo che non conosce. Manca poco al collasso globale e il governo tedesco festeggia come un grande successo il fatto che la BMW venda molte auto in Cina. L'intelligenza dei primati evidentemente non basta per capire che abbiamo raggiunto un punto in cui un'ulteriore crescita economica può portare a un maggiore benessere solo per breve tempo, ma più che altro provoca un maggior riscaldamento climatico e i costi a lungo termine a esso collegati, costi incredibilmente alti che prossimamente dovremo pagare tutti. Affidare all'uomo la cura della terra è come nominare giardiniere il caprone. La cosa ha funzionato finché la popolazione non ha superato un certo livello di guardia e finché il progresso tecnico ha offerto solo in misura limitata delle possibilità di distruzione. Ora il livello e la misura sono stati superati. L'intelligenza senza la corrispondente competenza sociale ed ecologica, come modello evolutivo, forse non è abbastanza vincente.
Probabilmente la capacità di sopravvivenza data dall'intelligenza è ampiamente sopravvalutata. Quando si parla dell'uomo di Neanderthal, si pensa sempre a sopracciglia folte e a un corpo sgraziato; spesso si dimentica il fatto che possedeva un cervello di 1,8 litri, molto superiore al nostro, che è di soli 1,4 litri. Benché sia doveroso porsi il dubbio che l'uomo di Neanderthal potesse essere molto più intelligente di noi, la scienza non ha mai seriamente preso in considerazione un'ipotesi del genere. Si è spiegata, invece, la maggiore grandezza del cervello come un sintomo dell'adattamento al freddo. Eppure l'uomo di Neanderthal si è estinto molto prima dei freddi intensi della glaciazione di Würm. Gli attrezzi, le pitture murali e le altre tracce di cultura lasciateci in eredità sono stati per molto tempo trascurati o attribuiti in modo affrettato all'homo sapiens. Il solo fatto che noi ancora esistiamo e che l'uomo di Neanderthal è estinto vale per molti come una prova che noi siamo stati e siamo i più intelligenti. Forse l'uomo di Neanderthal semplicemente non ha usato la sua intelligenza. Magari ha avuto solo sfortuna ed è morto per un'ondata di freddo più intenso, per un'epidemia o per la mancanza di cibo. Oppure il suo parente meno intelligente ma più aggressivo, l'homo sapiens, l'ha colpito con una clava gridando: «Ecco quello che si meritano i sapientoni come te!» Forse basta liberarsi dall'idea ingenua che nel corso dell'evoluzione vinca sempre il migliore, il più elegante, il più perfetto e il più intelligente. Nemmeno nella società odierna i posti più importanti, nell'economia e nella politica, vengono occupati dagli individui più intelligenti o più sociali. Le virtù di un dirigente negli alti gradi del management sono piuttosto la gioia che si prova nel prendere decisioni inflessibili e una robusta fiducia in se stessi, virtù tipiche, per esempio, di un boss della mafia. Una mente analitica, secondo Manager Magazin n. 11 del 2004, è solo un requisito accessorio, e gli stipendi assurdamente alti rafforzano la prevalenza del criterio dell'avidità nella selezione.
Il migliore si impone? Piuttosto si impone il peggior figlio di puttana, l'animale più aggressivo, il più avido, il più prolifico e il più cattivo, il più vile; il più adattato, insomma, quello che ha la fortuna di non subire incidenti di percorso, per esempio gli ominidi distruttivi e le mosche carnarie. Il migliore? Da tempo sono gli squali a prevalere.
[...]
Tra gli aspetti veramente importanti ed essenziali della vita ci sono l'attenzione e la compassione, anche quando si ha una fretta terribile. Non è facile, al contrario è difficile e faticoso mettere in moto la nostra compassione e la nostra razionalità, ma è anche un atto di presa di coscienza.
Non possiamo vivere senza uccidere e distruggere. Anche il raccolto di verdura e dei cereali causa vittime. Tuttavia ci resta ancora la decisione su che cosa, quanto e come uccidere. La libertà non significa solo fare quello che si vuole, ma anche sapere quello che si fa, avere delle convinzioni e agire di conseguenza. Altrimenti non ci resta che l'incoscienza, uno stato in cui ci arrabbiamo per sciocchezze da nulla e accettiamo con tutta tranquillità cose terribili....Continua Nascondi