Lager. Cosa ci fa venire come immagine, al primo impatto, questa straziante, teutonica parola? Io penso che a tutti noi sovvengano alla mente le aberranti immagini di luoghi dell’orrore come Auschwitz, Birkenau, Bergen-Belsen. Prigionieri rapati e indifesi, spogliati di tutto ciò che è umano e mandati a morte per volere di un popolo, di un partito, di uno spregevole dittatore, vera e propria incarnazione del male. Quando noi pensiamo alla parola lager pensiamo alle cataste di morti scheletrici spostate col caterpillar, alla soluzione finale, pensiamo a Hitler, al nazismo. Questo fino ad aver letto Arcipelago Gulag: quante analogie vi furono al di là della cortina di ferro con l’immagine prefissata nella nostra mente incentrata sulla Germania anni 30-’40!
Aleksandr Isaevič Solženicyn (Kislovodsk 11 dicembre 1918- Mosca 3 agosto 2008) è stato il primo a denunciare il sistema dei lager sovietici grazie al grande successo di “Una Giornata di Ivan Denisovic” (per il quale vinse il Nobel nel 1970, ma riuscì a ritirarlo solo nel 1974, una volta espulso dall’U.R.S.S.), scritto clandestinamente nel 1961 ma pubblicato col beneplacito di Chruščëv, nei primi momenti di “destalinizzazione”. Cresciuto in condizioni umili, Solženicyn si laurea in matematica all’Università di Rostov nel 1941 e si arruola nell’Armata Rossa. Combatte in Prussia Orientale e viene arrestato al fronte nel 1945 per aver criticato Stalin in una lettera privata scritta ad un amico, escrandone la condotta della campagna di guerra. Condannato a otto anni di lager e tre di confino, viene internato nella terribile prigione della Lubjanka in attesa di processo, sconta il lager alla barriera di Mosca e poi a Ekibastuz. Arcipelago Gulag, scritto a partire dal 1973, è l’opera monumentale, “totale” e corale, che analizza questa terribile esperienza in modo sistematico, avvalendosi, oltre a quella dell’autore stesso, di altre 227 testimonianze di sopravvissuti.
Gulag significa "Direzione principale dei campi di lavoro correttivi" (Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovykh lagerej). Innanzitutto perché l’opera si intitola Arcipelago Gulag? Semplicemente perché i campi di lavoro/sterminio, visti sulla mappa dell’Unione Sovietica, erano ai tempi di Stalin talmente numerosi da formare come un enorme, sconfinato arcipelago di puntini, ognuno indicante un campo: dalla penisola di Kola alla stretto di Bering, dall’Isola di Sachalin all’arcipelago delle gelide isole Solovkie, dalle steppe kazake alla Crimea, tutta l’URSS era disseminata di questi luoghi d’orrore.
Il nemico più grande del popolo russo era il popolo stesso: Stalin iniziò a stringere il cappio sulla popolazione già nel 1933, ma raggiunse il culmine durante le famose Purghe, 1937-1938: Solženicyn chiama questi grandi spostamenti di migliaia di persone vere e proprie “fiumane”, come un fiume in piena che si riversa da un lato all’altro del Paese. La pena più comune appioppata era la decina, dieci anni di lager, con museruola, ossia confino o domicilio coatto. A partire dalla fine degli anni ’40 andò più di moda il quartino, ossia 25 anni. Nel lager spesso veniva appioppata una seconda pena, quasi gratuitamente: bastava una delazione, ed eri dentro. Migliaia divennero delatori in quegli anni in Russia, diffondendo la fobia costante di presunti sabotatori e spie. Molti di coloro che fuggirono ai lager nazisti, finirono in quelli sovietici. La Čeka (NKVD, GPU, KGB che dir si voglia, insomma, i berretti celesti) arrivavano di notte, solitamente alle 03:00, l’ora in cui l’uomo è più vulnerabile. Una famiglia veniva distrutta: spesso erano arrestati anche i parenti sospettati, i figli sbattuti in orfanotrofio e dovevano rinnegare i genitori per avere un futuro. Istruttoria, firma estorta con le torture dai giudici istruttori, altre torture suppletive a non finire anche in prigione, in attesa di giudizio. E poi via, sui vagoni rossi detti stolypin (denigratorio!), un viaggio massacrante senz’acqua per chilometri e chilometri, fra prigioni di transito (come la tremenda Butyrki) e poi il lager.
Soldati dell’Armata Rossa, kulaki (o presunti tali…), cadetti, zaristi, marinai di Kronstad, religiosi, patriarchi, ucraini, tatari della Crimea, lettoni, estoni, lituani, milioni di russi… tutti finirono nelle fauci del lager. Stalin, “l’uomo di ferro” ebbe giornate dure e laboriose a sancire le condanne a migliaia di persone con una semplice firma, a ordire le sue Purghe, che si accanirono anche contro gli stessi suoi compagni rivoluzionari della prima ora: Zinonv’ev, Kamenev nel 1936; Pjatakov e Radek nel 1937; Bucharin, Rykov, Rakovskij e tanti altri ancora nel fatidico 1938, come lo spietato braccio destro di Stalin, il commissario del Popolo agli Affari Interni Jagoda, il perfido capo della polizia segreta NKVD Ežov o il giudice e penalista Kylenko, colui il quale avevo contribuito alla stesura del Codice Penale. Ma, spiega l’autore, che furono le Grandi Purghe in fondo, se non fiumane più grosse del solito?
Non mi dilungherò troppo nei dettagli dei campi: il lager sovietico era in tutto e per simile al lager tedesco, con baracche, zone, pre-zone, reticolati di filo spinato, torrette e scorte armate che portavano i prigionieri al lavoro in brigate a tagliare la legna, a estrarre metalli e minerali, a lavorare l’uranio, costruire mattoni, ecc. a ritmi disumani e massacranti e in condizioni proibitive e con abbigliamento e mezzi inadeguati. Anche nei Gulag vigevano delle gerarchie: tutti erano ZEK (zaključënnyj, ossia detenuti); alcuni privilegiati finivano a lavori meno pesanti (sartoria, infermeria ecc.) detti pridurki, i lavoranti comuni erano detti fraer e di loro non è quasi più sopravvissuto nessuno (Šalamov, è uno di essi, dopo aver provato sulla sua pelle le terribili miniere d’oro di Kolyma). I delinquenti comuni erano coloro che godevano di amnistie e simpatia delle scorte armate, i “58”, ossia colori quali erano condannati l’Articolo 58 del Codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, erano per la stragrande maggioranza dei casi innocenti e perseguitati. C’erano i padrini, i pasciuti Ufficiali della Sicurezza di Stato, e le loro “cagne”, i delatori, e più in alto i perfidi direttori dei lager, sadici e lascivi. Le donne erano in condizioni non migliori degli uomini, spesso costrette a concedersi ai direttori dei lager per fare una vita meno miserabile, e persino i fanciulli erano potenziali nemici dello Stato e potevano finire nei lager già a partire dai 12 anni. “Muori tu oggi, che io muoio domani” e “Non c’è giustizia nel lager” erano tra i motti più popolari. C’erano poi i lager cosiddetti speciali, ancora più severi, con isolatori tremendamente duri e razione di cibo dimezzate (in tutti i lager sobba acquosa, 300 grammi di pane o un mestolo di polenta russa, quantomeno nei lager ordinari).
A Kolyma, alle Isole Solovki, a Kengir, Ekibastuz, nei lager speciali, nelle colonie di lavoro o correzionali, stazionavano fisse, nell’era di Stalin, 15 milioni di persone. Ne morirono fra le 40 e 60 milioni soltanto in epoca staliniana. Il tasso di mortalità era di oltre l’80%, e coloro che sopravvivevano erano perlopiù pridurki (nello Steplag, in autunno c’erano in media 50mila persone, a marzo erano meno di 10mila). Opere folli che Stalin fece costruire a prezzi di vite umane esorbitanti: il canale di Stalin o Belomorkanal o la ferrovia Bajkal-Amur, per citarne un paio, con manodopera gratuita, sacrificabile e soprattutto facilmente sostituibile.
Solženicyn racconta tutto con una maestria struggente, racconta delle tristi vicende della famiglia Čebotarev, delle straordinarie e vane evasioni di Grigorij Tenno, dei quaranta giorni di Kengir. Racconta della miseria del confino e del futuro inesistenza per chi usciva dal lager, della “Peste Contadina” e delle vittime della collettivizzazione, dello svuotamento dell’uomo in corpo e anima in caso di sopravvivenza. Racconta della caduta di Stalin e del leggero lassismo dopo la conseguente caduta del suo molosso Berija, della ripresa della severità sotto Chruščëv, a partire dal ’57, dopo un periodo di effimera speranza. “Cambiano i dirigenti, i lager restano” titola un capitolo: le pene vengono ridotte a non oltre 15 anni, ma cambia poco o nulla dopo la morte del mostro Fratello Koba. Ci sarebbero miriadi di altre cose da dire su questo libro, suddiviso in 3 volumi, 7 parti e oltre 1900 pagine, ma penso che chi sia interessato possa benissimo apprezzarlo da sé.
Che dire, è questo il grande progetto di “dittatura del proletariato”? Questo è dunque il grande comunismo predetto dai profeti Marx ed Engles e portato in essere dagli eroi Lenin, Trotskij e Stalin? Non sembra che Berija e Himmler si assomiglino in modo terrificante? E Stalin e Hitler allora? Fra uno ZEK e uno Häftling? Un Müslim e un udchanji? Ai miei occhi ben poca, molti confronti vengono naturali con l’opera di Primo Levi. Quale follia ha attraversato il XX secolo… Questi estremismi, chiamateli comunismo o nazismo, possano far parte del passato una volta per tutte… quante storie di miseria, di disumanizzazione e disumanità, di morte, di violenza e tristezza, di svuotamento dell’essenza dell’uomo e della donna, di involucri che camminano senza meta con un numero cucito addosso al posto del nome… quanta mestizia e quanta desolazione. Spero che il coro di milioni di voci che si leva silenziosamente da tutti coloro che sono morti (per me non esistono morti di destra o di sinistra, penso che siano tutti vittime), echeggino nella mente di tutti noi per dire due semplici parole di monito: “MAI PIU’!”.
...Continuala mole di questo saggio e la vastità della materia trattata possono rendere difficile arrivare alla fine.. inoltre lo stile dell'autore non facilita le cose.. ma ne vale la pena.. bellissimo il capitolo sulle evasioni
"Se solo fosse così semplice. Se solo vi fossero persone cattive che insidiosamente commettono azioni cattive, e fosse solo necessario separarle dal resto di noi e distruggerle. Ma la linea che divide il bene dal male passa tagliente attraverso il cuore di ogni essere umano... In fondo è solo per il modo in cui sono andate le cose che gli altri sono stati gli assassini e noi non lo siamo stati."
...ContinuaCon gran dispiacere ho abbandonato il primo dei 3 libri di Arcipelago Gulag più o meno verso 3/4.
L'inizio è molto coinvolgente, sono raccontati molti aneddoti, sono le illustrate le situazioni più comuni di imprigionamento, tortura, accusa ma non in maniera teorica, ma citando casi particolari, nomi, cognomi e situazioni.
Quando poi arriva a descrivere le fasi processuali, i cambiamenti nei codici e nelle loro applicazioni ho fatto sempre più fatica a seguirlo: troppi nomi, troppi riferimenti e anche troppa finto sarcasmo. Ora, capisco quello che ha sopportato, ma le descrizioni perdono di obiettività, non è più racconto, né descrizione, ma invettiva. Per carità S. ha ragione, ma ho visto che non riuscivo più leggere con concentrazione e l'ho abbandonato ...
Ricordo sia stato uno dei miei primi libri di questo A., un testo imponente che merita stima e rispetto, un'opera che parla di eventi che non dovrebbero mai essere accaduti, ma che, proprio per questo, devono essere raccontati. E' un'opera unica per diversi motivi: per la scrittura devastante per i paradigmi e le sinapsi del pensiero unico dominante, per la capacità di Solzenicyn di mischiare i diversi generi quali il reportage di guerra, il dramma, la tragedia, la poesia, il flusso di coscienza, ed, in ultima analisi, i per il il tema dei campi di concentramento visti nel confino dell’Armata Rossa da migliaia di uomini e donne dati allo sterminio e all’industria carceraria. Un libro che comporta disagio, anticonformista, contrario alle accortezze politiche e dei luoghi comuni del politicamente corretto che lascia il segno in ognuno di noi.
...Continua