Consumo dunque sono è la traslazione del pensiero cartesiano nella modernità liquida all'interno della quale la mercificazione delle essenze è il verbo.
I diktat della produzione prevalgono oramai su tutti gli aspetti dell'esistenza, il tempo è puntiforme, occorre ciclicamente acquistare e produrre rifiuti per poter ancora acquistare, pazienza se gli "effetti collaterali", costituiti dalla formazione di una sottoclasse che non può permettersi di fare parte del gioco, rimarrà ai margini della vita, pazienza per la disgregazione del tessuto sociale e per l'esautoramento della politica che dovrà inchinarsi alle leggi di mercato, il consumo deve continuare. Forse uno dei saggi più "tecnici" di Bauman e pertanto non sempre agile nella lettura, comunque illuminante.
Possiamo dire che il consumismo liquido-moderno si distingue principalmente per la ridefinizione (finora unica) del significato del tempo. Il tempo viene vissuto da chi fa parte della società dei consumatori liquido-moderna come qualcosa che non è ciclico o lineare com’era invece per altre società della storia. Esso è invece, per utilizzare la metafora di Michel Maffesoli, puntinista 6 o, come lo definisce Nicole Aubert con espressione quasi sinonimica, punteggiato 7 : contrassegnato cioè da abbondanza di rotture e discontinuità, da intervalli che separano i diversi punti e ne interrompono il collegamento, più che dallo specifico contenuto dei punti stessi. Il tempo puntinista si distingue per la sua incoerenza e mancanza di coesione, più che per i suoi elementi di continuità e coerenza.
Il tempo puntinista è frazionato, o addirittura polverizzato, in un gran numero di «istanti eterni» (eventi, avvenimenti, incidenti, avventure, episodi), di monadi racchiuse in se stesse, pezzi separati, ognuno ridotto a un punto sempre più prossimo al suo ideale geometrico di non-dimensionalità.
Nella società dei produttori dopo una falsa partenza o un tentativo andato a vuoto il consiglio più frequente era di «riprovare, ma questa volta mettendocela tutta, con più abilità e più applicazione»: non così nella società dei consumatori. In quest’ultima gli strumenti che non hanno funzionato devono essere abbandonati, anziché affinati o utilizzati di nuovo con più abilità, più dedizione e, si spera, migliore effetto. Così, quando quegli oggetti del desiderio di ieri e quei passati investimenti di speranza non mantengono le promesse e non danno la soddisfazione istantanea e completa che ci si riprometteva, vanno abbandonati, e lo stesso vale per qualsiasi relazione che abbia prodotto un bang meno big del previsto.
Il valore più caratteristico della società dei consumi, anzi il suo valore supremo rispetto al quale tutti gli altri sono chiamati a giustificare il proprio merito, è una vita felice; anzi, la società dei consumi è forse l’unica società della storia umana che prometta la felicità nella vita terrena, la felicità qui e ora e in ogni successivo «ora»: felicità istantanea e perpetua. È anche l’unica società che si astenga ostinatamente dal giustificare e/o legittimare ogni forma di infelicità (salvo il dolore inflitto ai criminali in quanto «giusta ricompensa» per i loro delitti), che rifiuti di sopportarla e la presenti come un abominio che richiede punizione e risarcimento.
Man mano che il processo prosegue si accumulano elementi contrari che dimostrano, o almeno indicano fortemente, che, al contrario di quanto sostenuto, un’economia orientata ai consumi promuove attivamente il malcontento, erode la fiducia e rafforza il sentimento di insicurezza, diventando a sua volta fonte della paura diffusa che essa promette di curare o fugare – la paura che satura la vita liquido-moderna ed è la principale causa della forma liquido-moderna di infelicità.
Citando Nietzsche, Anders sostiene che oggi il corpo umano (ossia il corpo ricevuto accidentalmente dalla natura) è qualcosa che «deve venir superato» e che ci si deve lasciare alle spalle. Il corpo «grezzo», disadorno, non ri-formato né «lavorato», è motivo di vergogna: offende lo sguardo, lascia immancabilmente molto a desiderare, e soprattutto è testimone vivente di un dovere non compiuto da parte dell’«io», e forse dell’inettitudine, dell’ignoranza, dell’impotenza e della pochezza del suo ingegno. Il «corpo nudo», l’oggetto che per consenso comune non si dovrebbe mostrare in pubblico per tutelare il decoro e dignità del suo «proprietario», non significa oggi, secondo Anders, «il corpo svestito, ma un corpo su cui non si è fatto alcun lavoro» – un corpo insufficientemente «ridotto a cosa».
Per entrare a far parte della società dei consumatori e ottenervi un permesso di residenza a tempo indeterminato, uomini e donne devono soddisfare i requisiti di idoneità definiti dagli standard di mercato. Si chiede loro di rendersi disponibili sul mercato e di cercare di raggiungere un «valore di mercato» più alto possibile in concorrenza con gli altri membri della società. Perlustrano il mercato allo scopo apparente di cercare beni di consumo, ma in realtà sono attratti nei negozi dalla prospettiva di trovarvi gli strumenti e le materie prime che possono (e devono) usare per rendersi «adatti a essere consumati», e pertanto avere un valore di mercato.
La sindrome consumistica abbrevia radicalmente l’aspettativa di vita del desiderio e la distanza temporale tra il desiderio e la sua gratificazione, e tra quest’ultima e il cestino dei rifiuti. La «sindrome consumistica» è fatta tutta di velocità, eccesso e scarto.
Quanto più fluido è l’ambiente di vita degli attori, tanto più numerosi sono gli oggetti di consumo potenziale di cui hanno bisogno per cautelarsi dalle loro stesse scommesse e mettere le loro poste al riparo dai capricci del destino (ribattezzati, in gergo sociologico, «conseguenze non previste»). L’eccesso, tuttavia, accresce l’incertezza delle scelte, invece di eliminarla o almeno di attenuarla e sdrammatizzarla come si sperava.
L’avvento della libertà, camuffato da scelta del consumatore, tenderà a essere visto come entusiasmante atto di emancipazione da obblighi penosi e fastidiosi divieti, o da routine instupidenti e monotone. La libertà, quando si sarà affermata e trasformata in un’altra routine quotidiana, in un tipo di orrore nuovo ma non meno spaventoso di quelli che doveva disperdere – l’orrore della responsabilità – farà ben presto impallidire il ricordo delle sofferenze e dei rancori passati. Le notti che seguono a giornate di scelte obbligate sono piene di sogni di libertà dai vincoli.
I concetti di responsabilità e di scelta responsabile, che in precedenza erano collocati nel campo semantico del dovere etico e della preoccupazione morale per l’Altro, si sono, o sono stati, trasferiti all’ambito della realizzazione di sé e della previsione dei rischi. In questo processo «l’Altro» in quanto punto di partenza, destinazione e metro di una responsabilità riconosciuta, accettata e sostenuta, è pressoché scomparso, scacciato o messo in ombra dall’io dello stesso attore. La «responsabilità» ormai si esaurisce nella responsabilità verso se stessi («devi questo a te stesso», «te lo meriti», così come la formula chi vende «scarico dalla responsabilità»), mentre le «scelte responsabili» si riducono alle mosse che servono agli interessi dell’io e ne soddisfano i desideri.
La sofferenza umana oggi più diffusa tende a svilupparsi a partire da un’indigestione di possibilità, anziché da un’abbondanza di divieti come avveniva in passato.
E' inevitabile che la depressione causata dal terrore dell’inadeguatezza sostituisca, come disturbo psicologico caratteristico e diffuso tra gli abitanti della società dei consumatori, la nevrosi provocata dall’orrore della colpa (cioè dall’accusa di non conformità che può seguire una violazione delle regole).
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori.
I poveri sono rappresentati come persone negligenti, colpevoli e prive di principi morali. I media danno allegramente una mano alla polizia nel presentare al pubblico assetato di sensazioni forti l’immagine sinistra di «elementi criminali» che, all’insegna dell’illegalità, della droga e della promiscuità sessuale, si rintanano nell’oscurità di covi inaccessibili e malfamati.
Una società incerta della sopravvivenza del suo modo di essere sviluppa una mentalità da fortezza assediata. I nemici che ne circondano le mura sono i suoi stessi «demoni interiori»: le paure represse circostanti che permeano la sua vita quotidiana, la sua «normalità», ma che, affinché la realtà di ogni giorno sia sopportabile, devono essere schiacciate e spremute fuori della quotidianità in cui si vive e trasformate in corpo estraneo, in nemico tangibile con tanto di nome: un nemico che sia possibile affrontare più volte e che si possa pensare di sconfiggere.
Per chi vive nella società dei consumi ogni e qualsiasi routine, qualunque cosa associata a un comportamento di routine (monotonia, ripetitività), diviene insopportabile. La «noia», l’assenza o anche solo la temporanea interruzione del flusso costante di novità emozionanti che cattura l’attenzione, si trasforma per la società dei consumi in uno spauracchio sgradito e temuto.
L’«accettazione» (la cui assenza è stata definita da Pierre Bourdieu il peggior tipo possibile di privazione) è sempre più difficile da ottenere e ancor più difficile, se non impossibile, da avvertire come qualcosa di durevole e sicuro.
...ContinuaFondamentale. Su alcune spiegazioni si può essere in disaccordo, alcune analisi posso sembrare riduttive, ma a essere fondamentale è il tentativo di analizzare e interpretare il mondo. Questo tentativo è fruttuoso anche per chi non è d'accordo perché fa riflettere e da spunti non banali di interpretazione.
...ContinuaUn libro non facile ma illuminante, in grado di chiarire certi meccanismi che ci attanagliano ogni giorno.
Impossibile non dargli ragione in molti passaggi.