Attraverso la storia di un uomo degno di portare tale nome, Elisabetta Ferraresi riesce nel difficile tentativo di regalare al lettore il ritratto di un secolo, il Novecento, incredibilmente ricco di novità e contraddizioni, dolore e speranza. Lo fa servendosi di una prosa poetica, a tratti struggente, sempre scorrevole e mai banale. La storia, come spiega l’autrice stessa nella prefazione al volume, è vera ed è basata sui racconti del padre e del nonno dell’autrice, nonché sulle loro vite, per cui il romanzo ha anche il valore aggiunto di un omaggio, di un dono d’amore nei confronti delle proprie radici, della propria famiglia, della propria terra.
La Ferraresi riesce perfettamente nel tentativo di unire realtà e fiction, documenti storici e narrazione, tanto che il lettore, in mancanza della prefazione esplicativa, sarebbe portato a considerare anche le pagine di diario di Domenico un vero documento storico. Questo dimostra quanto l’autrice sia riuscita a far suoi il linguaggio, la mentalità e i sogni di un’epoca, tanto da saperli tradurre magistralmente in un romanzo che conserva intatto il sapore di un secolo “breve”, eppure così incredibilmente intenso. Più che da leggere, questo libro è da vivere: è la testimonianza toccante e sincera di un passato che ancora brucia come una ferita recente e, nello stesso momento, è la radice del tempo che abitiamo.
Alla vita di Domenico, infatti, fanno da contorno, come piccoli e preziosi cammei, le esistenze di altri personaggi che incrociano la sua strada. Dal povero Luigino, che vede tramontare il proprio sogno americano sul nascere, alla famiglia di Vincenza, da Balduccio che sogna l’Ovest alle vittime del terremoto di Messina, le vite umili eppure straordinarie di questi personaggi illuminano il ritratto di un’Italia ferita ma coraggiosa, pronta a combattere con tutte le sue forze. E, al cuore di tutte le cose, la famiglia: il nucleo fondamentale, il dono supremo, la radice.