L'ho trovato un libro particolare, una storia di emarginazione, di fuga, di amore, di illusione e disillusione... tutto in poche pagine e tutto senza particolari picchi... tutto così insignificatamente "interessante". Forse quattro stelle sono troppe ma, tre mi sembrano poche ;)
...ContinuaUscito in Francia nel 1995 e pubblicato in Italia da Einaudi nel 2016, questo breve e intenso romanzo di Agota Kristof (1935-2011) ha chiare connotazioni autobiografiche che lo rendono ancora più drammatico e angoscioso ripensando alle difficoltà della sua vita. Fuggita dall’Ungheria durante l’invasione sovietica, si rifugia in Svizzera dove lavorerà in una fabbrica per cinque anni. Sarà il francese, la sua “seconda lingua”, quella che userà per scrivere i suoi libri e forse, sarà proprio questa scelta a indirizzarla verso quello stile di scrittura essenziale ma sempre affilato e crudo, come una lama pronta a ferire in profondità, capace di far uscire fiotti di emozioni forti e strazianti.
In “Ieri”, un romanzo brevissimo ma denso di turbamenti e alienazioni, il protagonista Tobias Horvath è un uomo che fugge dal suo passato. Nato in un villaggio poverissimo “un villaggio senza nome, in una nazione senza importanza” ha una madre “ladra, mendicante e puttana” sedotta e abbandonata giovanissima che per sopravvivere è stata costretta al “mestiere” accoppiandosi con i contadini della zona nella sua misera stanza. Quando Tobias scoprirà chi è il suo vero padre cavalcherà la follia della rabbia e sarà costretto a fuggire in un altro paese, portandosi dietro solo il ricordo di Line, una bambina tanto amata che cercherà invano in ogni donna che incontrerà. Nel nuovo Paese farà l’operaio in una fabbrica di orologi vivendo nella solitudine, nel degrado, nella quotidianità immobile di un’esistenza senza senso, senza speranze, attanagliato agli accadimenti del passato, di un “ieri” che non gli permette di riprendere un cammino umano accettabile e positivo. Quando questo passato e l’unico desiderio a cui si è abbarbicato per non decidere di morire si faranno reali davanti ai suoi occhi, una nuova situazione irta di insidie, di rifiuti e di abbandoni, sarà l’occasione per emulare quelli che, a fine giornata, “chiudono le loro porte a doppia mandata e aspettano pazientemente che la vita passi”.
Crudele, ingiusto, dolorosissimo, il libro affronta tanti temi importanti: la povertà, i pregiudizi crudeli della gente, l’emigrazione, i sogni e le disillusioni della vita, il passato che ci trattiene, le differenze sociali che dividono, l’impossibilità di riscatto, l’accettazione amara della propria condizione.
Il vissuto dell’autrice intride ogni riga, ogni pagina, di crudele poesia, sempre alla ricerca di qualcosa che possa lenire le privazioni, le assenze, i legami spezzati, le parole infantili ormai dimenticate di chi è stato costretto a lasciare il proprio Paese, suscitando grande amarezza anche in chi legge e non può che proiettarsi nella sua bruciante e inesorabile rassegnazione.
L'uomo è animale privo di memoria. E la storia stessa, che contiene vagonate di memoria da conservare per farne tesoro, è un inutile fardello preoccupati come siamo di soddisfare l'atavico bisogno dei nostri istinti, anche a costo di ripetere all'infinito gli errori del passato.
E poi l'uomo è refrattario per natura a riconoscere i propri atti come errori. Egli dimentica, il più comodo dei modi. Meglio ancora egli archivia e lascia inutilizzato l'inutile ingombro di esperienza. E ciclicamente ripete gli stessi gesti, le stesse azioni, le stesse scelte e spesso gli stessi errori senza curarsi di interrogare l'archivio.
L'amore, più di tutte le altre cose, predispone a questo.
Con scrittura secca e asciutta Agata Kristof infonde lo stesso stile alle emozioni dei protagonisti, secchi e asciutti e che lasciano poco spazio all'immagine.
Eppure quel poco spazio, se si vuole, lo si riempie all'infinito. Proprio questo è il pregio della scrittura minimalista: concedendo poco alla scrittura, e quindi all'immaginazione, paradossalmente lascia ampi spazi tra un punto e l'altro, tra un capoverso e un “a capo”. Immense praterie che chi legge può riempire a suo piacimento, plasmando i protagonisti secondo le vicende e, ohibo', secondo quel po' di immaginazione che, in ipotesi, non ci dovrebbe stare. E invece gli intervalli, le pause, i dialoghi sospesi e mai ripresi, invogliano il lettore alle svariate congetture, ad un progetto di storia più o meno credibile, ma in qualche modo ancorata ad uno spazio e all'altro.
L'epilogo arriva come un rumore implosivo a raffreddare tutte le ipotesi possibili, a sancire per l'ennesima volta dell'ineluttabile destino dell'uomo a essere l'errore di se stesso.
È nella natura umana il dimenticarsi presto delle tragedie passate per riprendere la vita di sempre (cit. Francesco Guccini)
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