Philip K. Dick non ebbe una vita facile, né dal punto di vista personale né da quello letterario. I suoi romanzi di fantascienza furono pubblicati, lui vivente, su riviste e collane di genere, non permettendogli mai di raggiungere una accettabile sicurezza economica. Tra dipendenza dall’anfetamina, visioni mistiche, cinque matrimoni e periodi di assoluta povertà morì d’infarto nel 1982, mentre si stava girando il primo film tratto da uno dei suoi romanzi, il celeberrimo Blade runner di Ridley Scott.
Come spesso accade, fu solo dopo la sua morte, e in gran parte proprio grazie al successo di Blade runner, che la sua opera venne rivalutata, ed oggi Dick è considerato uno dei padri nobili della letteratura postmoderna nordamericana, un autore che – attraverso un personalissimo uso di distopie e ucronie – ha saputo raccontarci le angosce e le contraddizioni della società statunitense del dopoguerra, dagli anni ‘50 intrisi di ottimismo da un lato e di anticomunismo maccartista associato all’incubo nucleare dall’altro, alle utopie della grande rivolta giovanile degli anni ‘60 e 70, sino a giungere ai prodromi della controrivoluzione reaganiana i cui dogmi neoliberistici ci affliggono ancora oggi.
Personalmente, per quel poco che ho letto sinora della ponderosa produzione letteraria di Dick, dubito non poco di questa sua asserita grandezza assoluta. Certo, i suoi mondi sono in genere angoscianti e riflettono le logiche di una società disumanizzante ed alienante come quella del tardo capitalismo statunitense che si prepara ai fasti della globalizzazione, nelle sue distopie non è difficile ritrovare l’eco delle sue vicissitudini esistenziali, della sua vita di vittima costretta ai margini di quella società, ma ciò a mio avviso non basta per farne un autore di prima grandezza. I limiti della scrittura di Dick, la sua incapacità strutturale di utilizzare la parola scritta secondo modalità coerenti con gli oggetti delle sue narrazioni emergono ad ogni pagina, costringendolo spesso a tecnicismi che finiscono per far prevalere la cornice descrittiva rispetto all’essenza – che pure c’è – delle sue storie. Che differenza, in questo senso, rispetto ad un altro scrittore postmoderno al quale viene spesso associato: Thomas Pynchon. Se in qualche modo possiamo definire entrambi come scrittori del caos, non può sfuggire che il caos di Pynchon, a differenza di quello di Dick, è supportato da un coerente caos narrativo del tutto assente in Dick, il quale si trova costretto, sicuramente anche perché scriveva per vendere, per sopravvivere (lui stesso si definì sempre uno scrittore commerciale) entro un orizzonte formale piuttosto ristretto.
Non intendo con queste mie affermazioni stroncare l’opera di Dick, che rimane in alcuni casi importante nel panorama della letteratura nordamericana del secondo dopoguerra, ma cercare di ristabilire alcune distanze secondo me evidenti, che possono essere state annullate sono nell’ambito di una critica letteraria che ha perso ogni capacità di osservazione oggettiva, mossa spesso com’è soltanto dall’ansia di una originalità a tutti i costi e dalla necessità di creare nuovi miti letterari in un panorama oggettivamente piuttosto deprimente, il che ha l’indubbio duplice vantaggio di soddisfare il suo bisogno di autoreferenzialità e di essere utile sponda alle necessità di mercato dell’industria culturale.
Che Dick sia un autore in qualche modo sopravvalutato lo dimostra a mio avviso inequivocabilmente la pubblicazione da parte di una casa editrice come Einaudi, verso la fine del secolo scorso e quindi in pieno clima di rivalutazione dell’opera dello scrittore, di questo In terra ostile.
Come detto, Dick in vita pubblicò quasi solo romanzi di fantascienza che però non gli assicuravano sicurezza economica. Così, tra la fine degli anni ‘50 e la metà dei ‘60 tentò anche la via del romanzo realistico, scrivendo alcuni romanzi ambientati nella provincia statunitense e con personaggi appartenenti alla middle class. Praticamente tutti questi romanzi vennero però rifiutati dagli editori, e finirono per essere pubblicati attorno alla metà degli anni ‘80, dopo la morte dell’autore e quando era iniziata la sua postuma scoperta. In terra ostile appartiene a questa tipologia di romanzi: scritto attorno al 1957 fu pubblicato solo nel 1985 e nel 1999 arrivò in Italia, edito come detto da Einaudi che due anni prima aveva definitivamente sdoganato Dick pubblicando una delle sue opere più importanti, Cronache del dopobomba. Che si tratti di una operazione essenzialmente commerciale a mio avviso si intuisce già dalla traduzione italiana del titolo: nel linguaggio originale questo è infatti In Milton Lumky Territory, con riferimento ad uno dei personaggi chiave del romanzo, il rappresentante di commercio Milton Lumky. Forse una traduzione letterale è apparsa agli editor italiani troppo criptica (ma una certa cripticità nei titoli è caratteristica comune a molti dei romanzi di Dick): sta di fatto che la scelta di un titolo vagamente inquietante e che potesse in qualche modo rimandare ad un contenuto fantascientifico o distopico risponde smaccatamente all’esigenza di spacciare questo romanzo come tipicamente Dickiano, in modo da attrarre compratori.
Di ostile infatti la terra in cui vive e che attraversa nei suoi viaggi il protagonista, Bruce Stevens, da adolescente chiamato Skip, non ha proprio nulla, se non la congenita desolazione della provincia statunitense tra Idaho, Nevada e Oregon, che peraltro emerge dalla narrazione in forme del tutto convenzionali.
Il romanzo infatti è ambientato in quel lembo dell’Ovest statunitense, verso la fine degli anni ‘50. Bruce è un giovane di belle speranze: ha 24 anni, una Mercury del ‘55, e da pochi mesi si è trasferito dalla cittadina dell’Idaho in cui è nato a Reno, Nevada, dove lavora per un discount, con il compito di acquistare all’ingrosso le merci che poi saranno vendute a prezzi stracciati. Passando per lavoro dalla sua città natale, pensa di fermarsi da una vecchia fiamma, con l’intento di riallacciare la relazione. La cosa non gli riesce, ma nella casa della ex conosce Susan Faine, una affascinante donna di una decina d’anni più anziana di lui che – come ricorda dopo il loro primo incontro – è stata sua insegnante una dozzina d’anni prima. Lei ha appena divorziato ed a Boise, una cittadina vicina, è proprietaria di una copisteria che però sta andando economicamente male. I due si rivedono il giorno dopo: scocca la scintilla e Susan propone a Bruce di divenire suo socio per rilanciare gli affari grazie alla sua esperienza nel commercio. Bruce accetta, si licenzia e i due in breve si sposano. Bruce pensa di trasformare la copisteria in un negozio di macchine per scrivere, e viene a sapere da un rappresentante, Milton Lumky, che sta per giungere sul mercato una nuova portatile giapponese elettrica, e che rivenderla in esclusiva potrebbe essere un ottimo affare. Con l’aiuto dello stesso Milton e dopo avere costituito un piccolo capitale, Bruce si mette a cercare il grossista delle macchine per scrivere, trovandolo infine a Seattle. Considerandole di ottima qualità ne compra sessanta, impegnando praticamente tutti i soldi che ha a disposizione. Non voglio narrare come prosegue la vicenda, per non diminuire il gusto della lettura, ma riporto l’avvertenza dell’autore che Dick antepone al primo capitolo: “Questo è un libro curioso davvero, e tra l'altro è anche un buon libro, dal momento che gli strani eventi che accadono sono quelli che accadono alle persone in carne ed ossa. C'è anche un lieto fine. Cos'altro può aggiungere un autore? Cosa può dire di più? Credo che questa breve riflessione di Dick ci dica molto sulle sue intenzioni rispetto al romanzo: scrivere un buon libro, che narrasse la vita reale delle persone, con un lieto fine per i lettori che egli si augurava ovviamente numerosi.
In effetti In terra ostile potrebbe essere un buon libro, perché avrebbe tutti gli ingredienti per esserlo. L’ambientazione è intrigante, soprattutto per il lettore contemporaneo: la provincia statunitense negli anni di Eisenhower, del maccartismo formalmente concluso ma ancora culturalmente imperante, del Rock and Roll e degli altri fermenti culturali alternativi che annunciano gli anni ‘60, del consumismo incipiente. I personaggi principali sono tipici rappresentanti della middle class dell’epoca: Bruce con il suo spirito di iniziativa e la certezza che ce la può fare (peraltro alla prova dei fatti incrinata seriamente dalla sua inadeguatezza ed inesperienza), Susan più tormentata dai dubbi ma anch’essa dotata di un’anima imprenditoriale, Milton più oscuro ed ambiguo, sorta di deus ex machina minore in grado di condizionare il destino dei due. Anche le trasformazioni etiche che accompagnano quelle sociali giocano una parte importante nel romanzo: Susan è già stata sposata due volte ed ha una figlia, Bruce all’inizio del romanzo compra una scatola di preservativi, i due vanno a letto insieme praticamente subito, quindi si sposano con estrema leggerezza. Vi è poi il fatto che Susan ha conosciuto Bruce come sua insegnante, e che tra i due già all’epoca si era sviluppato un rapporto di odio-amore venato di una repressa attrazione sessuale. Purtroppo questi ingredienti rimangono tali, e Dick non è in grado di amalgamarli in modo tale da trarne una composizione riuscita. Tutto rimane in superficie, appena accennato, senza che questi ingredienti riescano davvero a innervare la vicenda, che si traduce in una banale storia d’amore e di affari di piccolo cabotaggio per assicurarsi un avvenire che perpetui l’orizzonte piccolo-borghese nel quale i due sono immersi. Tutto è pallido nella prosa di questo romanzo di Dick, compresi i suoi evidenti limiti espressivi: ma non si tratta del pallore dato dall’angoscia esistenziale e sociale che pure l’autore pare porre alle basi del suo racconto, ma dello scialbo pallore di chi non sembra in grado di colorare la sua storia e vuole solo rassicurare il lettore che nonostante tutto, nonostante lo squallore delle cittadine di provincia, nonostante le ferree leggi del mercato, nonostante gli errori di chi (come Bruce) si lancia in avventure commerciali senza averne le competenze, tutto può finire bene, e un lieto fine lo si può sempre fabbricare, almeno nei romanzi. L’happy end del romanzo è infatti senza dubbio il suo punto più debole, estraneo come è all’andamento della storia nel suo complesso, la quale solo con un finale diverso avrebbe potuto in parte riscattare le altre sue insufficienze.
Queste insufficienze strutturali sono in qualche modo esaltate dal dimesso modo di narrare di Dick, che trabocca dei luoghi comuni della narrativa statunitense dell’epoca, tra motel, Chevy e Mercury del ‘55, strade interstatali percorse in lunghi viaggi senza soste, paesaggi desertici e desolati. Non mancano in verità piccoli colpi di genio, come gli sciami di mosche gialle dalle ali appuntite che aprono il romanzo spiaccicandosi sul parabrezza delle auto, ma tutto rimane in superficie, non riesce a farsi sostanza del romanzo, finendo per essere una sorta di patina opaca che tenta di coprire il vuoto.
Come detto, il titolo originale del romanzo è In Milton Lumky Territory, ed in effetti la figura del rappresentante della ditta di articoli di carta è sicuramente quella più interessante del romanzo, per il ruolo ambiguo che vi gioca ed anche per una caratterizzazione più originale, che fa di lui l’elemento eccentrico rispetto alla eccessiva linearità della storia di Bruce e Susan. Milton è una sorta di elemento di disturbo, rispetto al cui ruolo nello sviluppo della vicenda molti interrogativi rimangono insoluti, e che – a mio avviso significativamente – si deve fare definitivamente da parte per permettere alla storia di finire bene. Anche un personaggio come Milton però non riesce veramente a ravvivare la vicenda, e si può dire che il suo territorio non si distingue granché dagli altri territori del romanzo.
Invano, a mio modo di vedere, il traduttore Davide Brolli si affanna, nella breve postazione, ad accostare i romanzi realistici di Dick a quelli di scrittori come Sherwood Anderson o Faulkner e più avanti, ad una minore (sic!) come Flannery O’Connor. La verità è che mentre questi ultimi autori sono stati in grado di farci sentire drammaticamente la crudeltà e la desolazione di quella parte del mondo, Dick ce la fa solo annusare, deodorando peraltro alla fine l’ambiente, almeno in questo romanzo, con uno spray consolatorio.
Insomma, se Dick è, come credo, un ottimo autore minore, capace di vestire la letteratura di genere di tematiche che lo oltrepassano, quando si confronta con la letteratura che narra delle persone in carne ed ossa scopre tutti i suoi limiti: In terra ostile in questo senso è l’opera minore di un minore.
Nello stesso anno di Tempo fuor di sesto, il 1958, Philip Dick scrive In terra ostile, romanzo che continua il filone mainstream, una narrativa senza genere che si focalizza sull'irrequietezza esistenziale dei protagonisti. Come gli altri romanzi non di fantascienza, anche questo vedrà la luce solo dopo la morte dello scrittore. Qui vediamo Bruce, un giovane e talentuoso commerciale di una grande azienda, che si lascia irretire e innesca una relazione con Susan, donna di dieci anni più vecchia e sua ex insegnante di scuola. Cercando di mandare avanti una rivendita di macchine da scrivere, tentano anche di costruirsi un futuro insieme: in un momento è roseo, in quello dopo è destinato a fallire, in un circolo senza un'apparente fine. [...]
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una famiglia che si forma, che vuole american dream, l'ossessione di vendere per guadagnare e affermare sé stessi, la morbosità dell'amore ex-alunno/insegnante un bizzarro uomo che si mette in mezzo
niente angosce futuriste stavolta, solo angosce quotidiane, che felicità