Un libro intenso, intimista e autobiografico questo di Paul Auster. Diviso in due parti collegate tra loro da due temi: la memoria e la morte che si trasforma in vita e la vita che diventa morte.
Dopo quale settimana dall’inaspettata morte del padre, l’autore si ritrova nella grande casa di un uomo che non aveva mai conosciuto appieno. Proprio in questo luogo partono una serie ininterrotta di frammenti di diverse esistenze che si concatenano lungo tutto il libro: il padre, il nonno, il figlio e l’ex moglie di Auster. Non è un vero e proprio flusso di coscienza, piuttosto un puzzle di immagini, coincidenze e associazioni in cui il caso gioca strani scherzi.
L’invenzione del quotidiano è il ritratto di una famiglia nelle pieghe del tempo. Ma anche la rivincita della parola, della lingua che proprio nella solitudine si ritrova per ricollegare tutti i pezzi di questo intricato mosaico. La frase che più rappresenta il libro è questa: «Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine». Ma proprio da questa solitudine nasce la meraviglia, che fa toccare e riesce a rappresentare il mondo intero.
Un libro che fa riflettere e tocca le corde di tutti noi, grazie anche alla splendida scrittura di Paul Auster.
Consigliatissimo.
Il taccuino di un uomo che scava in se stesso, lo zibaldone di un nessuno che si guarda allo specchio. Tante, troppe parole, che a volte sfolgorano - ma bisogna andarsele a cercare.
Una lettura dissonante e difficile, che a volte premia, più spesso prova. Se ne valga o no la pena dipende dalle domande a cui si cerca risposta.
“... sognando in quelle dimensioni, S. aveva trovato il modo di partecipare a tutto ciò che lo trascendeva, avvicinandosi di alcuni centimetri al cuore dell’infinito.”
...ContinuaL’invenzione della solitudine, prima vera opera in prosa di Auster, è impossibile da descrivere come un tutto organico è una raccolta quasi infinita di attimi, di impressioni e di tutti quei topos che rappresenteranno i perni e le ossessioni su cui ruoteranno la maggior parte delle sue opere successive.
Il libro è diviso in due parti la prima “Ritratto di un uomo invisibile”, è raccontata in prima persona; la seconda parte, il “Libro della memoria” è scritta in terza persona.
“A. comprende che, mentre sta seduto in quella stanza scrive Il libro della memoria, sta parlando di sé come se fosse un altro per raccontare la propria storia. Deve assentarsi per essere presente. E così dice «A»., anche se intende «Io».”
Nel “Ritratto di un uomo invisibile” abbiamo quasi l’impressione di trovarci di fronte alle confidenze di un amico che attonito e confuso per la scomparsa del padre cercasse disperatamente tra gli oggetti e i ricordi per capire e ricostruire.
[“Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Di per sè le cose sono amorfe: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso. Quando essa giunge al termine, le cose cambiano anche restando uguali. Ci sono e non ci sono, come spettri tangibili, condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto.”]
Un amico che, alla fine, in questo processo doloroso di ricerca si rende conto di quanto questa mancanza improvvisa abbia sbloccato il padre che c’era in lui e la consapevolezza profonda di quanto Daniel, suo figlio, conti realmente per la sua stessa vita.
[“Quando muore il padre, il figlio diviene padre e figlio di sé stesso. Guardando suo figlio si rivede nel volto del bambino. Immagina ciò che vede il bambino quando lo guarda, e si accorge di trasformarsi nel padre di sé stesso”.]
Nella seconda parte, “Il libro della memoria”, Auster ci conduce in un viaggio lungo e tortuoso attraverso se stesso e il tempo raccontandoci frammenti del suo passato legati alla ricerca di una figura paterna (il signor S) o del concetto stesso di memoria.
[“La memoria come luogo, edificio, colonnato, portici, cornicioni. Il corpo nella mente, come camminando in essa, trasferendoci da un luogo all’altro, e il rumore dei nostri passi che si spostano dall’uno all’altro luogo”.]
Ma anche:
[“Rimane affascinato dalla scoperta che Anne Frank è nata lo stesso giorno di suo figlio. Il dodici giugno. Sotto il segno dei Gemelli. Un’immagine gemellare: un mondo dove tutto è duplice, e ogni cosa si ripete sempre due volte. La memoria: lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta”.]
È un viaggio pieno di ostacoli di ricordi, di citazioni letterarie, di richiami alle vite e alle opere di pittori straordinari e complessi. È un viaggio di coincidenze (nel senso junghiano di sincronicità come nesso acausale di eventi) e di domande.
“Se un romanziere avesse utilizzato questi piccoli episodi dei tasti rotti (o l’incidente della chiave spezzata il giorno del matrimonio), il lettore sarebbe costretto a prenderne nota, deducendo che il romanziere ha cercato di fornire indicazioni sui suoi personaggi o sul mondo. Si può parlare di significati simbolici, o di senso nascosto, o più semplicemente di artifici formali (perché quando la stessa cosa succede più di una volta, anche se è arbitraria, suggerisce un disegno, e una forma comincia a emergere). In un’opera narrativa, si presuppone che dietro le parole scritte vi sia un’intelligenza cosciente. Invece di fronte agli eventi del cosiddetto mondo reale non si presuppone nulla. La storia inventata consiste totalmente di significati, mentre la storia reale è scevra di ogni significato oltre sé stessa. […] Manca qualcosa: la grandiosità, la generalizzazione, l’illusione di una verità metafisica. Si dice: Don Chisciotte è la coscienza che frana nel mondo dell’immaginario. Poi guardiamo un pazzo nel mondo reale (A., per esempio, guarda la sorella schizofrenica) e non ci trasmette nulla. Forse la tristezza di una vita sprecata... ma nient’altro”.
L’invenzione della solitudine è un libro profondamente autobiografico, piccolo ma straordinario e sofferto che per gli amanti di Auster rappresenta sicuramente un tassello importante per la comprensione di quanta parte della sua esperienza personale e familiare sia divenuta parte integrante dei suoi romanzi successivi.
Non finito, non abbandonato
Annobi ai tempi che furono, ora non saprei, prevedeva due differenti stati: libro non finito e/o libro abbandonato, GR con tutta la sua perfezione stilistica non prevede né uno né l’altro.
Come se i libri fossero fatti solo per essere letti.
I libri sono fatti per essere scritti innanzitutto a beneficio di chi li scrive, e poi per essere venduti…, la lettura è un atto che viene dopo, non necessario o almeno opzionale, teoricamente potrebbe non verificarsi!!!
E come diceva il buon Pennac è legittimo e sacrosanto per un lettore esercitare il suo diritto all'abbandono.
Figuriamoci, si abbandona e si viene abbandonati da mariti, amici, clienti e che sarà mai abbandonare un libro?
Si fa male a chi? All’autore? Sì succede che si provi un misto di reverenza o di affetto autorale. Si contravviene al proprio stoico spirito di abnegazione? Si rischia di non compiacere coloro i quali hanno venerato il tal o talaltro libro?
E, d’altra parte, ci sono invece gli abbandonati che meriterebbero di essere finiti, quei libri che spiccano il volo esattamente la riga dopo l’ultima letta.
O siamo semplicemente noi sbagliati, o lo è il momento.
In realtà l’abbandono implica una interruzione brusca, spesso arrabbiata o esasperata che a volte si avvicina al classico, consolatorio, impeto al lancio di libro dalla finestra.
Il non finito invece prevede un percorso condiviso per un certo tratto di strada, ancorchè arduo, un incaponimento, un tentativo in tutti i modi di fare andare bene le cose, di cercare di capire.
Ma quando la noia prende il sopravvento, quando anche una mosca che vola o il rumore di una porta che sbatte o il gatto che sfreccia dietro la sua pallina rotolante, o il pensiero di qualcuno o qualcosa si impone alla mente e diventa più interessante risvegliandoci dal torpore della lettura, allora è proprio arrivato il momento di chiuderla lì.
Pertanto e nemmeno a malincuore lascio, non finito e a tre quarti dal suo explicit, il mio caro Paul Auster.
Per un caso, credo fortuito, ho letto di seguito uno all’altro due libri sullo stesso argomento: rapporto padre figlio.
Ma Auster, con tutto il suo amalgama di riflessione filosofica, di vita reale e tuffo e rituffo nei labirinti della memoria è molto lontano dall'efficacia, dalla spontaneità naturale di un Philip Roth qualsiasi allorchè ne Il patrimonio scriveva e senza troppi alambiccamenti la sua ode, sì appassionata, ma con misura e intelligenza ad un padre.
Con Auster non m piglio mi era già successo con la Trilogia di New York, credo che le nostre strade si separino definitivamente questa sera.
Siamo nel lontano inverno del 2004. Trovando finalmente il coraggio di agire, Paul Auster rovista nella valigia dei suoi sentimenti alla ricerca di una nuova identità. O, per lo meno, di qualcosa che possa donargli aiuto o conforto. Dopo aver scartato varie possibilità, fra questi un'improvvisa idea di suicidio, sceglie di aggrapparsi alla scrittura come surrogato per la sua anima semplice, da qualche ora a questa parte completamente ridotta in minuscoli pezzettini. E camuffandosi da scrittore di anime, poeta spirituale che ha dovuto trattenere i drammi della vita con legacci, come tocco finale la morte repentina del suo amato padre, gli conferirono l'aspetto di un vecchio pronto a ricevere la beatitudine eterna. L'Auster di queste pagine, sebbene non conforme ai miei gusti, non è stato il poeta romantico ma maledetto, pazzo savio o santo nullatentente che vive ai margini di una realtà che lo sopraffece, bensì un laido derelitto di se stesso che emana in queste poche pagine una dolce indifferenza verso il mondo che lo circonda, poiché essendogli già caduto tutto addosso, niente può più sconvolgerlo. O forse no?
Accostandomi alla figura di questo povero relitto, in un punto piuttosto strategico del suo essere scrittore, ho tirato dal nulla la mia immancabile agenda e cominciai a scrutarlo, recuperando da una vecchia raccolta di fogli grigi e spiegazzati quelle che non sono altro che le misere confessioni di un uomo solitario e incompreso. Qualche minuto più tardi, ecco apparire il vero movente. Il padre di Paul Auster morì per un incidente terrificante e, non prestando completamente attenzione della sua morte, per questo improvviso bisogno di immergermi nei suoi pensieri, ho ignorato di proposito il concetto di morte gettando piuttosto una certa luce su ciò che abbia indotto quest'uomo a subire un simile tormento.
Si è trattato di segreti famigliari? Gelosie che avanzano in un paesaggio famigliare apparentemente tranquillo. Ecco qui. Ecco dove volevo arrivare.
E con questa constatazione che L'invenzione della solitudine non si merita il posto d'onore fra l'infinita serie di romanzi più belli di questo autore, salutando alla fine questa confessione come l'ennesimo tentativo per ristabilire gli elementi e continuando per la mia strada.
E dopo? L'importanza dell'essere padre con il figlio piccolo come ultima immagine che entra in scena come un sorriso eloquente sulla faccia.
Non saprò mai la verità assoluta sulla macabra storia famigliare degli Auster. L'autore di questo libriccino è stato diretto, schietto, ma non ha soddisfatto alcuna mia curiosità. Consapevole solo che presto o tardi tutto sarebbe cessato, sarebbe tornato alla normalità, comportandosi da padre amoroso per il resto dei suoi giorni.
Intanto gli anni avanzarono, e Paul Auster divenne un icona relativamente importante nel panorama culturale. Della sua produzione letteraria, devo ancora leggere un mucchio di opere e, avvalendomi dei sentimenti profondi che nutro nei suoi riguardi, il mio desiderio di tenergli la mano e curare i mali del mio spirito mediante i suoi scritti non penso cesserà di esistere tanto facilmente.
Eppure, sebbene non soddisfacente come credevo, non dimenticherò questa nostra ennesima chiacchierata. In un periodo non particolarmente brillante, mi ha dato un po' di cose da pensarci sopra. Quasi come una confessione proveniente chissà da dove, Paul Auster riversa in poche pagine di diario esperienze e curiosità che in un periodo prorompente della sua vita, lo resero inquieto, solo, in cui la conoscenza con la scrittura furono quell'idioma che legarono le sue risposte con le sue domande. Scrivere di una "cura" contro gli effetti devastanti della realtà, affinchè il mondo o la vita in generale non finisca ma continui a perpetuare nel tempo, mi ha indotto ad abbandonarmi a quel po' di incoerenza ubriaca che ancora una volta ho potuto scorgere con interesse e diletto, sperimentando tuttavia qualcosa che fortunatamente non ho mai provato, scrivendo un romanzo che altri non è che una scissione fra sogno e realtà e di cui lo stesso autore evidenzia la sua percezione nella consapevolezza su di essa. Accettando, alla fine, ciò che era giusto accettare. Andando oltre le stesse parole in quanto scrivere non è altro che un pretesto, un alterità arbitraria, un modo per cimentarsi con l'ignoto. Sopravvivere e poi trionfare. Con un bagaglio di emozioni altalenanti che distorgono l'anima di chiunque, rievocando con nitidezza quegli strani ma mai irrivelanti dettagli che in un certo senso mi hanno sorpreso.
Ho visto questo mondo dipinto da Auster come un lungo e oscuro corridoio inondato poi dal bagliore accecante della speranza, dell'andare avanti, che hanno aiutato sia l'autore sia me nel momento del bisogno. Circondato da anime ignare della propria identità, depravate dalla vita ma vive, impossibilitate a tornare in se nel momento in cui decidono di farlo.
La prima parola appare solo nell'attimo in cui non si riesce più a spiegare niente, in un momento dell'esperienza che sfida ogni significato. Trovarsi a non poter più dire nulla. O, invece, dire a se stessi: è questa l'ossessione che mi possiede.