Anche se si tratta di poco più di un lungo racconto, anche se narrativamente parlando non accade quasi nulla, anche se questo è considerato un Calvino minore, proprio perché meno “distintivo” nei suoi tratti di originalità che lo hanno reso famoso, credo che questo sia uno dei tanti libri importanti di cui è costellata la nostra letteratura del secondo dopoguerra, e di cui purtroppo abbiamo perso memoria.
Importante per i temi che Calvino indica nella sua prefazione (quello dell'infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione), ma anche, credo, per i temi che Calvino non poteva immaginare sarebbero diventati oggi più attuali di ieri: il tema della democrazia, il tema della partecipazione consapevole al voto, il tema della governabilità. In un contesto storico profondamente mutato, mentre si discute di democrazia diretta e di elite, rileggere le riflessioni dello scrutatore di Calvino è importante per ritrovare un equilibrio etico lontano dalle dispute urlate e fallaci.
Adoro Calvino. Di suo leggerei anche la lista della spesa, perché, quando la voce e lo stile di un'autore ti conquistano, puoi leggerne qualunque cosa. Per questo ho deciso di provare anche con questo Calvino, più realista rispetto a quello a cui negli anni mi sono abituato. Come dicevo, non mi ha deluso, non poteva. Ho ritrovato la sua attenzione ai piccoli personaggi, alle dinamiche relazionali più - apparentemente - minute, alle strutture che compongono il nostro vivere sociale. "La giornata di uno scrutatore" - nella versione che ho letto si accompagna a "La speculazione edilizia" - è la storia non raccontata delle prime elezioni, è il chiedersi "abbiamo tutti diritto a votare?", è la storia non raccontata del boom economico, è leggere pagine di permessi edilizi e scoprire che dietro quelle parole apparentemente così lontane dall'emozione, ci stanno le vite delle persone.
Quindi: mi sono affezionato a questo testo come agli altri di Calvino? No, ma mi sono sorpreso nel ritrovare uno sguardo nuovo sulla vita di tutti i giorni.
Amerigo Ormea è uno scrutatore iscritto al partito comunista alle elezioni del 1953. Il seggio è situato all’interno dell’istituto Cottolengo di Torino, gestito da religiosi, dove sono ricoverati minorati mentali, deficienti, deformi, individui affetti da malformazioni così gravi che non si permette a nessuno di vederli. In quegli anni si raccontava di sotterfugi elettorali di ogni genere, da una parte e dall’altra. Si diceva che negli ospizi i religiosi portassero a votare anziani affetti da demenza senile, persone mentalmente incapaci, moribondi; che nei paesi i comunisti invitassero le vecchiette più beghine e ingenue a “cancellare con una croce” il diabolico simbolo di falce e martello. Ci sono complessi, diffidenze, paranoie: le suore temono che una scheda macchiata da minime imperfezioni di stampa possa essere invalidata. Il compito di Amerigo è controllare che persone mentalmente disabili non siano guidate a votare Democrazia Cristiana, ma l’umanità che sfila davanti a lui lo induce a riflessioni etiche e morali. E’ infastidito che il voto di un idiota possa valere quanto il suo. Si chiede se un dio di bontà possa permettere infermità e dolore. Domande che affondano nel pantano della banalità. La scrittura è pesante, con periodi lunghissimi e involuti, infarciti di parentesi, e si finisce per perdere il senso e il filo del discorso. Anche la grammatica è traballante, e i congiuntivi sono spesso ignorati. Amerigo è l’alter ego di Calvino, simbolico anche nel nome: Vespucci era un esploratore di nuovi mondi, e Ormea è l’anagramma di amore. Combattono in lui lo spirito rivoluzionario intransigente e il liberalismo pacifista. Il racconto è chiaramente autobiografico, con quesiti etici che forse tutti ci poniamo, senza trovare una risposta soddisfacente. Amerigo è un uomo confuso, insicuro, contraddittorio, che cerca conforto nella filosofia. Ho letto questo libro per curiosità, perché la mia insegnante di storia al liceo esaltava Calvino, ma mi ha deluso.
...ContinuaNon diciamo altrove, perché altrove è dappertutto.
***
… quasi che la vittoria fosse già questa, nella vecchia lotta tra Stato e Chiesa, la rivincita d’una religione laica di dovere civile, contro…
Contro cosa?
***
«Ecco, uno esce un momento a fumare una sigaretta, – pensò, – e gli prende una crisi religiosa».
No, non ha una crisi religiosa, Amerigo. Non cambierà la sua vita, non ha illuminazioni né avrà repentine conversioni. Come lui il suo autore. Resta la possibilità di guardare la vita e l’altro con occhi diversi: agire come prima (Lia deve tenere o no il bambino?) ma consapevole di aver acquisito una consapevolezza non stralciabile. Non racconta di miracoli, Calvino, compone una storia di riflessioni, di certezze messe in crisi e dell’obbligo di confrontarsi con l’inimmaginato.
Con una conoscenza acquisita durante due visite, che gli fa impiegare il gergo cottolenghino, famiglie e buoni figli (espressione, credo, caduta in disuso), Calvino si pone da pensatore laico di fronte al mistero, perché di mistero si tratta: non di aberrazione, stortura, addirittura sadismo nel tenere in vita vite “non degne” (parole sentite da personaggi illustri, non nei peggiori bar di Torino o di Biella): è la scoperta di declinazioni dell’umano conosciute fino a quel momento per sentito dire, che la teoria vorrebbe espungere, appellandosi se necessario a una menzognera pietà.
Ideologia, politica e tutte le astrazioni restano fuori: la vita al Cottolengo è concreta e non ammette sovrastrutture di logica.
Dell’inutilità del fare, il «Cottolengo» era la prova e insieme la smentita.
***
La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile.
È polemico, Amerigo, sia pure con voglia di capire e disposto a lasciarsi interrogare. Del resto in quel seggio speciale ci è andato con un intento: limitare i voti al grande nemico, mai chiamato per nome, Democrazia cristiana, di cui suppone la Piccola Casa della Divina Provvidenza serbatoio a costo zero. E che ci siano degli eccessi mi trova concorde, solo che diventano sempre più marginali: che cos’è un pugno di voti di fronte alla riflessione sulla condizione umana, che non è quella disperata e pessimista e smarrita del Novecento, va oltre qualsiasi forma estetica e ideologica per arrivare all’essenziale: che cos’è l’essere umano? Che cos’è l’umano?
La Chiesa, dopo un lungo rifiuto, aveva preso in parola l’eguaglianza dei diritti civili di tutti gli uomini, ma al concetto d’uomo come protagonista della Storia aveva sostituito quello di carne d’Adamo misera e infetta e che pur sempre Dio può salvare con la Grazia.
Farà storcere il naso a molti ma questo passaggio è la risposta plausibile, la declinazione definitiva dell’antico homo sum, e non vi è concesso arrivarci con la sola ragione: la ragione, al contrario, cercherebbe tutte le ragioni possibili per dimostrare che il limite per definire l’essere umano esiste. Solo che non potrebbe dire su che cosa è fondato. Solo che non potrebbe fissare il limite del limite, lasciandolo mobile: ammettiamo che le vite “da Cottolengo” non siano umane, allora perché non si dovrebbero trovare sacche di non-umanità al di fuori della mura della Casa?
Già il confine tra gli uomini del «Cottolengo» e i sani era incerto: cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa, rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia…
Nel mondo-Cottolengo Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali o estetiche.
Metafisica, di questo si tratta, se non vogliamo girare in tondo: possiamo svicolare dalla questione dell’esistenza di Dio ma qui si tratta di qualcosa che si tocca con mano e da cui non si può svicolare: l’esistenza dell’uomo. Accettare le vite “da Cottolengo” significa aver compiuto un passaggio oltre il razionalismo e il materialismo e accettare, ricordo che sto parlando dell’uomo e non di Dio, per fede. E per amore. Pericoloso è accettarle per pietà, perché la pietà può essere abilmente impiegata per giustificarne la soppressione.
Così Amerigo non trova nella dottrina del Partito comunista alcuna spiegazione per quelle vite, solo una generica idea di società in cui ci saranno centinaia di Cottolengo più attrezzati e meglio gestiti. Ma questo ancora non spiega perché quelle vite. Perché non c’è, la spiegazione. Le vite “da Cottolengo” e, per estensione, tutte le vite, non spiegate perché inspiegabili, vanno accettate: o si fa quest’atto di fede o non lo si fa.
Un passaggio di avvicinamento a una prospettiva nuova è l’osservazione di una suora impegnata nella sua missione di una vita con le vite “da Cottolengo”. Una definizione di amore valida non solo per la vocazione religiosa, ma anche per l’amore che lega due persone (Amerigo ha una vita sentimentale instabile): non il risultato di un momento, che dura finché dura, ma un impegno preso una volta per tutte e coltivato ogni giorno, rinnovato e rafforzato quando le difficoltà, i dubbi e le incomprensioni lo mettono in crisi, ribadito anche nei momenti in cui pare esaurito. Per la suora che accudisce chi gli è affidato come per Amerigo e Lia, e tutti quelli come loro.
… perché tutto doveva essere molto naturale per lei, non ci dovevano essere dubbi, dacché aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro.
Ci si muove con gradualità verso dichiarazione più alta e profonda del libro, a partire dall’osservazione casuale, all’inizio quasi infastidita, di una scena di vita che abbatte le categorie precostituite: un contadino, verosimilmente privo della finezza intellettuale di Amerigo, ma spinto da una forza diversa, in visita al figlio, ragazzo che solo l’atto di fede e di amore permette di accettare: la corrente d’amore si instaura in un gesto banale, offrire mandorle pazientemente sgusciate, magari il cibo preferito del ragazzo, e diventa un guardarsi negli occhi, comunicazione che non si regge su ideologie, estetiche e sovrastrutture, ma su una forza diversa.
Senza, lo ribadisco, che la vita e il pensiero del protagonista ne siano clamorosamente sconvolti, Amerigo, ovvero Calvino, giunge alla logica (possiamo qui recuperare questa parola) conclusione di quell’atto di fede e di amore, che definisce che cos’è l’essere umano, che cos’è l’umano: tutto.
Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio.
. . . . . . . . . .
Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare.
. . . . . . . . . .
Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.
E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore.
E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.
Come avrebbe detto un mio professore di filosofia: "chi controlla i controllori?" e da qui il tema sulla correttezza nei vari contesti. Calvino sempre acuto