"Una città chiusa dentro le mura del suo orgoglioso passato, diffidente e riservata. Una vera città regale [...] ogni persona è un mondo a sé, caratterizzato da una leggera sfumatura di malinconia negli occhi [...] mi ci è voluto del tempo, molto tempo per riuscire ad integrarmi, temo di essere diventato anch'io un suddito malinconico"
Younis Tawfik "La Straniera"
Sullo sfondo di una Torino descritta nel rigore della sua anima più profonda, si disegnano le figure di due immigrati nordafricani: l'architetto integrato a livello lavorativo, sociale e culturale e Amina ridotta ai margini più bui e disperati. I due si incontrano ma non c'è futuro per loro.
La scrittura attenta, ingenua, denuncia il rigoroso tentativo di fusione dello stile occidentale con quello mediorientale. Bella la mia Torino vista attraverso gli occhi dell'architetto; pudica, elegante, fredda, silenziosa.
Si tratta di una storia a tre personaggi: due immigrati di diversa condizione, legati da un’impossibile storia d’amore (un architetto ormai integrato e una giovane marocchina di nome Amina, giunta più recentemente in Italia e costretta per vari motivi alla prostituzione) e Torino. La città non è semplicemente lo scenario del romanzo, ma è un vero e proprio motore narrativo che “svela” (permettendo incontri casuali e inaspettati) e “nasconde” (facendo sì che un personaggio, in questo caso Amina, clandestina e straniera, venga inghiottita dalla città per diventare invisibile e irrintracciabile fino a morire). La morte di Amina è solo l’ultimo atto di un’esistenza ai margini, anzi letteralmente di una non-esistenza come non-cittadina e addirittura come merce. Amina, infatti, è una prostituta: vive tra il treno, che collega la sua abitazione periferica, e il marciapiede, dove passa gran parte del suo tempo e dove, nell’attesa, osserva costantemente e avidamente la fantasmagoria della merce esposta nelle vetrine. L’incontro causale tra Amina e il protagonista maschile innesca per i due personaggi la condivisione e i racconti delle rispettive storie. Quello che strutturalmente è l’aspetto più rilevante ed evidente del romanzo, ovvero l’alternanza delle due voci nella narrazione, rappresenta la messa in scena più evidente di uno scontro non dialettico tra focalizzazioni diverse che costruiscono il sé in funzione e grazie agli spazi di percorrenza e di abitazione. La città si configura, per usare un’espressione di Michel de Certeau, come il «teatro di una guerra di racconti».
...ContinuaI nostri ricordi, il nostro vissuto, ci rendono oggetti umani, non semplice spirito, non effluvi d'anima. E la nostra carne, le ferite che l'hanno straziata, diventano la nostra prigione. Talvolta dissimuliamo questa costrizione, cercando di guardare il mondo tra una sbarra e l'altra; talvolta il giogo ci vince, e diventa la nostra casa.
Una città, forse d'altri, spinge l'Architetto e Amina ad incontrarsi, e affida l'uno nelle mani dell'altra. Uno sguardo ingenuo potrebbe saperli simili, ma ad avvolgerli è la sola necessità di consegnarsi agli occhi dell'altro. I due si raccontano vicendevolmente, e ricordare è come partire. "La straniera" di Tawfik è un viaggio, duplice, che sa offrire alle mani del lettore gli incubi, gli aneliti, il disincanto dei suoi protagonisti. Ma quando la narrazione si esaurisce nello sguardo di chi ascolta, non resta che una solitudine dolente, la stessa che avvicina gli attori di questo libro, che li lega, come un destino. Un'emarginazione che si rivela, con forza, ad entrambi, ma che non sa risolversi, perché è il manifesto di una proiezione. Tawfik ci insegna che il ritorno non è un luogo, non è l'origine, bensì una culla di pace, dove trovarsi liberi; un nido d'assoluzione e d'oblio, per la violenza subìta. È il petto dell'amante, sul quale il sospiro si scioglie. L'Architetto solo alla fine comprende questo abbandonarsi, ed esausto, sconfitto dal tempo e dalle sue ragioni, accetta di tornare a se stesso. Di tornare a lei.
Per altre recensioni, sfocature.blogspot.it
...ContinuaL'amore fa male.
Fa male ad Amina, sedotta in Marocco da un uomo che la sposa e l'abbandona derubandola appena giunti in Italia dopo un viaggio estenuante, per poi tornare a riempirla di botte non appena gli ritorna voglia di una donna a disposizione. Amina che finisce per strada, perché non ha il permesso di soggiorno, non parla italiano, non conosce nessuno, cos'altro potrebbe fare senza una minima rete di sostegno?
Amina è la voce dell'immigrazione disperata, quella senza un appoggio, senza un cosiddetto "progetto migratorio". L'architetto invece, arabo anche lui, fa parte dei primi arrivi, quelli per motivi di studio nelle grandi università del Nord; si è laureato, si è anche sposato ma poi è stato lasciato, ha trovato un lavoro, si è, diremmo con questo termine che tanto piace, integrato.
L'architetto non può accettare di innamorarsi di una prostituta, araba per di più, o dovrebbe mettere in discussione le fondamenta stesse della sua cultura. Non è pronto. E quando è pronto, è troppo tardi.
Ecco, il dramma finale -come riportato già da altri giudizi che ho letto- è un po' eccessivo. In linea con qualche poesia araba strappalacrime disseminata per il testo. La malattia incurabile, la sparizione di lei, la follia che colpisce l'architetto... Poteva forse concludere la vicenda un attimo prima. Però tutto il resto merita.
...Continua