Fosse stato uno dei soliti romanzi di guerra post-11 settembre, il ruolo di protagonista sarebbe stato assegnato a David Town, l’ufficiale del governo Usa che conduce l’interrogatorio dei sospetti, oppure all’altro americano, l’ostaggio di cui non sapremo mai il nome.
Invece il protagonista non è Town che ben presto esce di scena, bensì proprio il giovane pakistano lacero, mutilato e reticente che l’ufficiale si trova di fronte in catene, perché questo è un romanzo particolare che sfugge ai dettami del genere, così come è particolare il suo autore, 51enne anglo-pakistano trasferitosi dal natìo Pakistan a 14 anni, studioso di biochimica e autore di soli quattro romanzi, tre dei quali tradotti in italiano, il bellissimo “Mappe per amanti smarriti”, il meno riuscito “La veglia inutile” e questo.
“Il giardino del cieco” (che è il titolo originale, non quello incongruo e pretenzioso che l’edizione italiana ha attribuito…) è un’opera molto affascinante che, proseguendo l’analisi della sua essenza ibrida e, per ciò stesso, molto originale, mescola in un contesto pakistano, “terra straziata e dolente”, elementi di azione che sembrano quasi tratti dal western: il fuggiasco, il prigioniero, l’assedio, il tradimento, il ritorno, il sogno di un futuro pacifico e familiare, simboleggiato dai fiori del giardino richiamato nel titolo, quasi un’utopia nell’inferno in cui ognuno si trova a vivere, anzi a sopravvivere.
Ma il ritmo e lo stile della narrazione sono prettamente orientali con lunghe fasi contemplative e la presenza costante del sentimento religioso in tutti i personaggi, anche i giovani cresciuti con un’educazione “comunista”. Su tutto ciò incombe il conflitto talebani/americani reso più complesso (e più verosimile) dalla presenza dei “Signori della guerra” e dei governi locali, di dubbia affidabilità e schierati ora con l’una ora con l’altra parte, secondo la convenienza.
Si esce dalla lettura di questo notevole romanzo con la percezione di un caos dominante, sul quale Aslam evita di prendere una netta posizione (non è un romanzo “militante”) attribuendone l’univoca responsabilità all’intervento americano o alla pressione dell’integralismo islamico: tutti sono vittime e carnefici, in definitiva marionette di una scena che è stato e resta uno dei principali incubi della nostra epoca. Che speranza possono mai avere con queste premesse, l’amore di Mikal e Naheed, la presenza di una scuola cristiana fra le moschee, l’amicizia fra Jeo e Mikal? Forse la risposta è in quei due bambini che nel finale giocano “riempiendo di grida l’aria limpida rinfrescata dalla pioggia”.
Ma quei bambini sono già orfani.
...Continuauna scrittura elegante e delicata per parlare di un mondo devastato e devastante
Tra un occidente che esporta a forza una democrazia imperialista ed un Islam che ha reso il suo -Corano di pietra e mortifero, sta la gente circondata da pericoli, senza speranza
Il titolo italiano, che nel testo originale è il titolo di una delle parti del libro, sintetizza molto bene quello che accade ai protagonisti, "danni collaterali" del conflitto in Afghanistan. Molta violenza, quasi sempre mascherata da motivi religiosi utilizzati per risolvere questioni personali, ma anche molto amore, spesso radicato in un profondo sentimento religioso. In alcune parti il linguaggio è troppo metaforico (piante e fiori soprattutto) e gli manca la tagliente precisione che avevo ammirato in "La veglia inutile". Si intravede nel finale contiene una possibilità di emancipazione per le protagoniste femminili, ancora una volta le più "danneggiate" dagli ingranaggi della Storia.
...ContinuaAnche se non ho letto molto sul tema “conflitto in Afghanistan” e simili, la sensazione è che, spesso, libri di questo genere siano troppo romanzati, nel senso negativo del termine. Temo che questo non faccia eccezione: ci sono troppe immagini idilliache e romanzesche, che stridono troppo con la crudezza della realtà che sappiamo imperversare in quelle terre tribolate.
...Continua