Paura, terrore, perquisizioni, carcere, pena di morte. E’ questa la Germania nazista raccontata nel romanzo di Hans Fallada. Un popolo che vive nel timore di essere scoperto, anche solo nei pensieri, dal proprio vicino di casa, un popolo che “ama” il Fuhrer e lo considera un Dio (forse perché titolare di diritto di vita o di morte per i condannati), considerato così anche da genitori che chiedono la grazia per una figlia o un figlio che ha “sbagliato”, rinchiuso in galera e pronto a morire. Opposto alla gente comune è il regime, rappresentato da tutti i membri dell’esercito che vive di bevute, sigari, perquisizioni e brutalità di ogni genere, circondati da tutti coloro pronti a vendere anche un parente pur di ingraziarsi le loro simpatie...ma in fondo sanno che tutto questo è sbagliato??
In questo clima di “apparenza” si risveglia la dignità di una coppia che ha perso l’unico figlio al fronte. Due coniugi che, nonostante i tormenti iniziali, sentono che devono far qualcosa. Perchè vogliono avere la coscienza apposto, sicuri di risvegliare, consegnando cartoline con su scritte frasi anti-regime, anche la coscienza di altri che magari seguiranno il loro esempio. Grande è la delusione nell’apprendere che la paura ha avuto la meglio, che quasi la totalità delle cartoline è stata subito consegnata al regime e che l’unica persona che alla fine si “converte” è proprio colui che ha dato loro la caccia per due anni (e personalmente penso che anche così ne è valsa la pena!)! Un po' lento nella prima parte, nell’ultima mi è piaciuto tantissimo, l’autore descrive bene l’animo dei protagonisti, la forza e la dignità di Otto che non vacillano fino alla fine, un uomo un po' freddo che che finiamo per ammirare! Da leggere perché fa riflettere e quando un libro ci costringe a pensare significa che ha fatto centro nel nostro cuore e nella nostra anima.
Che bella sorpresa questo libro! Letto d'un fiato. Il singolo uomo non può cambiare il mondo,però può vivere "decentemente",credendo in quello che fa,rispondendo alla sua coscienza,mettendo in gioco la propria vita,insomma vivendo da persona "perbene".
...ContinuaNella Berlino del 1940, all’indomani della capitolazione della Francia, domina un opprimente clima di sospetto, una cappa che alimenta crudeltà, diffidenza, opportunismo, e dove non c’è molto da andare per il sottile se è sufficiente una fantasiosa delazione per venire relegati nel campo di concentramento di Sachsenhausen o in una cella, vista patibolo, della famigerata Plötze. E’ in questo miserabile quadro sociale, nel cuore di un terzo Reich “infame oltre ogni infamia”, che i sobri e operosi coniugi Otto e Anna si ritrovano all’improvviso, gomito a gomito con individui “eternamente indecisi tra la lusinga e la minaccia”, rampanti e solerti esponenti della Gioventù Hitleriana e forze di polizia dai modi quantomeno sbrigativi, a piangere il loro unico figlio, morto al fronte. Non che l’austero capofamiglia, capofficina in una fabbrica di mobili, versi poi chissà quante lacrime. Lo sconvolge, più che altro, il risentimento della moglie che, nella disperazione del primo istante, gli rinfaccia per frustrazione simpatie verso il Führer a dirla tutta campate per aria. Qualcosa ad ogni modo, nella testa del taciturno operaio col “volto aguzzo da uccello”, scatta davvero. Ed eccolo allora, nella quiete precaria del suo modesto appartamento, pianificare una risposta all’apparenza innocua ma che per lui ha il peso di una “grande opera” di opposizione silenziosa: la composizione di una serie infinita di polemiche cartoline, vergate di proprio pugno e personalmente piazzate in luoghi frequentati per seminare il malcontento e incitare al sabotaggio. La sua speranza è che questi manufatti possano circolare e ridestare le coscienze intorpidite dalla convenienza e dalla paura, per quanto quasi tutte, in realtà, finiscano molto rapidamente sulla scrivania di un acuto funzionario della Gestapo, il commissario Escherich, che dà così il la a una caccia paziente al fantomatico “pilota fantasma”, condotta sottotraccia e destinata a durare anni.
Liberamente ispirato a una vicenda di cronaca relativa al triennio 1940-1942, “Ognuno Muore Solo” è un romanzo corale e raggelante che l’alcolizzato ed ex-tossicodipendente Rudolf Ditzen, in arte Hans Fallada, scrisse in una manciata di settimane appena qualche mese prima del prematuro decesso, nemmeno due anni dopo la caduta di Hitler. Proprio questa urgenza febbrile quanto lucidissima ne rappresenta, evidentemente, il tratto narrativo più rilevante. E a dispetto della genesi impetuosa, non si può negare alla sceneggiatura dell’autore di Greifswald l’equilibrio, la pazienza e l’ampio respiro che si addicono al certosino lavoro di un grande storiografo. I fascicoli della Gestapo relativi alla nobile, utopica resistenza dei coniugi Hampel (qui Quangel), servono solo da pretesto per una riflessione molto più profonda e dettagliata sulla società tedesca negli anni che precedettero la rovinosa caduta del Reich, sull’ottusità di una maggioranza allineata al regime per terrore ancor prima che per dedizione ideologica e, per dirla con la Arendt, sulla banalità che rese a tal punto devastante questo cancro sociopolitico. Nonostante la necessaria didascalicità e un taglio angusto che diremmo neorealista (una sorta di “Germania Anno Zero” tratteggiato con appena qualche margine di anticipo sull’annientamento della nazione), il racconto di Fallada si apre a deviazioni mai casuali, accantona il diligente grigiore dei Quangel per immergersi nel chiassoso quotidiano di personaggi più abietti e patetici, arruffoni meschini, piattole da scantinato e ruffiani da quattro soldi come Enno Kluge o Borkhausen, striscianti truffatori di infimo cabotaggio. E in opposizione a loro, colorite macchiette, lascia trionfare l’ubriacante vertigine del male in quegli autentici mostri che sono i più piccoli ingranaggi del sistema, purché oliati a dovere da un dogma putrescente: gerarchetti dal delirante fervore, giudici votati al sadismo, funzionari mediocri ma immancabilmente più realisti del re o aspiranti SS, allenate alla brutalità persino con chi le ha messe al mondo. Al centro, il terrificante accanimento di una depravazione morale, cieca e impassibile, che alberga nell’animo umano e tutto travolge, senza il calore della pietà e senza riguardo per niente o nessuno.
Il protagonista assoluto di questo durissimo romanzo non è tuttavia un individuo. E’ il caso, che ordisce le sue trame con indifferenza mentre il caotico pulviscolo della comunità, ormai dimentica di concetti capitali come “amore” o “fratellanza” (che possono anche costare carissimi, come dimostra la parabola della generosa vedova Hete), si affanna con ogni mezzo per non affondare nella marea nera. Un dettaglio, una scelta insignificante, possono cambiare tutto e far volgere l’ordinario alla rovina. Il pensiero amarissimo dello scrittore è affidato a un personaggio di secondo piano, il compagno di cella filosofo Reichardt, ma anche nella disperazione della sua prospettiva è lasciato uno spiraglio importante alla speranza: in un contesto sociale che ha annientato ogni traccia di solidarietà si è condannati fino alla fine a una sorta di isolamento, ma non si muore inutilmente se si è combattuto pur solo in silenzio “per la giustizia, contro la forza bruta”. E non è necessario imbracciare un fucile, né piazzare ordigni esplosivi o in forma di cartolina, perché anche educare al rispetto per il prossimo – come insegna la postina Eva Kluge al giovane Kuno, nell’unico vero raggio di sole del libro – può tradursi in una apprezzabile forma di ribellione e valere come riscatto, non soltanto individuale.
(8.7/10)
...ContinuaHa per me un grande valore simbolico il fatto che io abbia letto la gran parte di questo libro in un aeroporto tedesco (a Monaco prima, a Francoforte in un secondo momento). Sono strutture pulite, efficienti, precisissime. Sono strutture che nel loro grigiore sono soffocanti, esattamente come le facce grigio pietra dei dirigenti tedeschi che prendono quegli aerei.
Nessun libro finora è mai riuscito come questo a trasferirmi l'infernale distorsione dei valori non solo dell'animo dei singoli, ma della comunità nel suo complesso, che il reich millenario è riuscito ad operare in pochi anni di esistenza. Non c'è riuscito Primo Levi (che pure a Ognuno muore solo fa esplicito riferimento), non c'è riuscito neppure George Orwell, anche se quest'ultimo ha avuto il merito di concepire l'idea di Bispensiero, che del male che si fa sovrano è uno dei cardini portanti.
"Anche i tedeschi soffrirono", mi hanno detto gli amici anoobiani che mi hanno consigliato questo libro (ma già lo avevo nel mirino da tempo). E' vero, ma non nello stesso modo in cui soffrirono e morirono gli altri popoli che finirono schiacciati dallo stivale che compare in copertina. Come questa storia racconta molto bene, molto più della violenza schietta sui tedeschi ha agito la paura, e più ancora l' ansia di dominio che quel sistema concedeva a cambio della rinuncia a diventare uomini.
In fondo il nazismo è stato questo, ed in questo è stato ciò che di peggio ha prodotto l'umanità nella sua storia, peggio di gengis Khan. Dare al Male che c'è in ogni uomo la possibilità di emergere, e di essere accettato a fondamento della comunità stessa. Gengis Khan e Attila in un loro barbaro modo avevano bisogno di sentirsi uomini, nelle carceri della Gestapo essere buono è un crimine mortale, laddove invece il tradimento, l'odio e la delazione giustificano una grazia.
Non voglio entrare nei dettagli del piccolo e patetico ma coraggiosissimo tentativo di resistenza dei coniugi Quangel. Sottolineo invece che quando si gira l'ultima pagina si capisce che tutti siamo un po' nazisti, perchè un po' dell'ansia di dominio sta anche dentro di noi perchè è parte della natura umana. Ma soprattutto siamo nazisti quando di fronte a un' ingiustizia stiamo a guardare: perchè non ha colpito noi, perchè abbiamo paura di metterci davanti ad un bullo che è più forte, perchè in fondo non ne vale la pena. Mohandas Gandhi predicava la lotta non violenta contro l'oppressore, ed ha scritto una lettera a Hitler in cui annunciava lo schierarsi dell' India contro il nazismo, chiamandolo amico. Invece distillava un odio feroce per le anime piccole, per i pusillanimi, per la massa di quelli che stanno a guardare. Per la massa di quelli che vanno dietro al demonio alla ricerca di qualcuno a cui dare la colpa del proprio fallimento che non sia la propria mediocrità, alla ricerca di un potere sugli uomini meno che mai meritato, ma sicuramente irraggiungibile in modo legittimo.
Questo è anche un libro che fa impressione dal punto di vista letterario. E' un esempio di satira ai suoi livelli più supremi. Le figure di Kluge e di Borkhausen mostrano come si posa attaccare, condannare, fustigare demitizzare il male supremo proprio ridendone (anche se Hans Fallada se le prende poi le righe necessarie per dire chiaro e tondo cosa pensa del fascistello miserabile che è la causa dell'arrivo nel mondo del fascistone infernale). Non ci possono essere sulla terra mastini infernali se non ci sono dietro di loro branchi di Botoli Ringhiosi.
Se usata bene, la satira è un'arma potente. Questo libro non sarebbe piaciuto a Padre Jorge da Burgos.
"Il mare l'abbiamo avuto anche a noi a Milano, tutto cosparso del suo bel ondeggìo che esso c'ha dentro. Esso andava da Porta Lodovica fino in via Farini, via Torino tutto un scoglio, che c'è ancora il pesce adesso in via Spadari.
Poi sono arrivati i tedeschi e hanno spaccato su tutto..."
I tedeschi spaccano su tutto. E la resistenza l'hanno avuta anche loro, come noi a Milano il mare.
Qui Rudy Ditzen, AKA Hans Grimm Fallada, tossico e ubriacone, riscrive le pagine di una cronaca di resistenza al Regime, trascurabile nella sua portata, nelle sue conseguenze e nella sua cifra assoluta. Proprio per questo rappresentativa e degna di nota, spaccato universale del teatro drammatico dell'Oppressione e dall'avere sulla nuca ben premuta la suola del potente.
Pur senza stereotipare quasi nessun personaggio Hans Fallada ritrae plasticamente le figure archetipiche: le canaglie, gli abbruttiti, i comprensibilmente succubi, i forzosamente succubi, i lombrosianamente succubi, i carnefici per vigliaccheria, i carnefici per fesseria, i carnefici per non essere fatti vittima. Tutti, o quasi, vittime comunque; con l'umanità soverchiata e annichilita dal culto del sospetto, del tradimento, della sopraffazione, della conformazione. In cui tutti sono contro tutti, e perciò soli e destinati alla morte da soli. In cui chi resiste è, ancor più, isolato, e persino nella cellula da quattro si annida la paranoia, e persino la coppia (maritomoglie, fratellosorella, padrefiglio…) è incubatrice di sospetti: ognuno muore solo, più ancora di quanto avvenga comunque.
I Quangel/Hampel si fanno centro di questo meraviglioso romanzo, ordinato, ben scritto e narrato bene in tutti i registri sempre ben spesi, ma sono solo personaggi di contorno di uno oggetto poliforme che, in sezione, rivela le orrende viscere del mostro.