C’è il cittadino che urla “A morte chi sa leggere e scrivere!” e il cittadino che urla “A morte gli emigrati!” e l’altro ancora che urla “Ha il fazzoletto! È un aristocratico! Al lampione, al lampione!”, e sai che non sei nel testo teatrale “La morte di Danton” del 1835 scritto da un tedesco di 22 anni sui fatti del Terrore del 1793-1794 in Francia, ma durante uno sgombero a Milano sotto i ghigni dei leghisti o durante una sfilata di sostenitori di Trump che credono sia venuta la volta della loro rivincita, cioè di buttare una MOAB in Afghanistan e di fare la voce grossa con la Corea del Nord.
E il Robespierre, il suo cinismo della ragione, sbugiardato dal Danton ormai sconfitto dalla sua stessa disillusione (“DANTON. Il popolo odia coloro che godono come un eunuco odia gli uomini.”), che risultato plebiscitario otterrebbe alle urne, lui i suoi discorsi su terrore&virtù che sono cosa giusta quando sono accentrati nelle mani di un potere paternalistico, puritano, totalitario.
Per quanto a seppellire Robespierre ci pensi Dantone dicendogli: “Io mi vergognerei di andare in giro fra cielo e terra per trent’anni con la stessa fisionomia morale, solo per il miserabile piacere di trovare che gli altri sono peggiori di me. Non c’è nulla in te che talvolta non ti dica sottovoce, in segreto: tu menti, tu menti?”.
Sono giunto a Georg Büchner attraverso il Cileno Tildato a proposito del silenzio che cala sullo scrittore, in questo caso perché stroncato dalla morte precoce. E provo dell’amarezza pensando che tutta la produzione di Georg sta in un solo libro, selezione delle sue lettere comprese, e provo ammirazione per il coraggio magari incosciente con il quale Georg ha vissuta la sua vita, trovando anche il tempo per avvertirne come il fallimento degli ideali, per il suo genio che gli fa scrivere: “JULIE. E poi torna subito, subito; voglio leggere i suoi sguardi nei tuoi occhi.”; che gli fa scrivere “DANTON. Eppure avrei preferito morire diversamente: senza fatica alcuna, come cade una stella.”
Per il Cileno Tildato il miglior pezzo di Georg è Woyzeck, l’ invenzione letteraria che non ha bisogno di essere costruita attorno a un fatto storico, che non è più una dichiarazione di ideali, caduti, e di poetica, ma un dramma autenticamente umano, inquieto e che mai può essere del tutto tenuto in un perimetro di razionalità, proprio perché umano. Woyzeck, in effetti, al di là della sua incasinata storia editoriale, è più potente de La morte di Danton per dei momenti di autentica leggerezza, come in “Margret: (...) Io sono una persona onesta, io, ma lei invece, lei trapassa cogli occhi sette paia di brache di cuoio!”, e di violento romanticismo, come in “CAPITANO. Vai correndo per il mondo come un rasoio aperto, che a incontrarti ci si taglia(...)”, e di bestialità non filtrata, folle, omicida, geloso, come in “WOYZECK: “Fatelo di pieno gorno, fatelo sulle mani degli altri come le mosche!”.
“Woyzech” è meno decadente de “La morte di Danton”, meno vanitoso, ma a me “La morte di Danton” piace dippiù, lo stesso.
E nella commedia demenziale “Leonce e Lena”? Due buone per Leonce:
“LEONCE. Infelice! Pare che anche Lei soffra di ideali.”
“LEONCE. Oh, mi conosco bene, so quello che penserò e sognerò fra un quarto d’ora, fra otto giorni, fra
un anno.”
E una devastante per Lena:
LENA. “Un terribile pensiero mi insegue: credo che ci siano uomini che sono infelici, inguaribili, per il solo fatto che esistono.”
E la battuta più esilarante, quindi più disperata se pensi sia detta solo per riderne, è:
LEONCE. “Non sai tu, Valerio, che persino il più insignificante tra gli esseri umani è tanto grande che la vita è fin troppo breve per poterlo amare?”
Oh, è di chi starà mai parlando Georg quando scrive del poeta Jacob Michael Reinhold Lenz?
“Ma non sente nulla, Lei? Non sente quella voce spaventosa che urla su tutto l’orizzonte e che di solito chiamano silenzio? Da quando mi trovo in questa valle tranquilla la sento continuamente, non mi fa dormire; oh, Reverendo, se solo potessi dormire!”
La lettera che preferisco Georg l’ha scritta da Strasburgo nel 1835, perché vi appare questo stralcio: “Se solo fossimo capaci di immaginarci che gli strappi nei nostri calzoni siano le finestre di un palazzo, potremmo già vivere da re! Così invece si patisce un freddo miserabile.”, ma è da quella scritta da Zurigo, e diretta alla famiglia, del 20 novembre 1836 che ricavo la curiosità più grande. In questa lettera Georg scrive di dare per morto Minnigerode, suo amico di sovversione ai tempi dell’Assia: “Minnigerode è morto, come mi scrivono, vale a dire che è stato tormentato a morte per tre anni! I sanguinari della rivoluzione francese ammazzavano almeno la gente in un paio d’ore, il giudizio e poi subito la ghigliottina. Invece tre anni!” In nota il curatore però precisa: “La notizia era falsa. Karl Minnigerode fu rilasciato nel 1837 per le sue rovinate condizioni fisiche, ed emigrò due anni dopo in America dove visse come insegnante fino ad ottanta anni.”
Quale fu, se ci fu, la reazione di Karl Minnigerode quando lesse della morte di Georg? Ha mai letto la lettera in cui l’amico Georg lo dava per morto? Vivere è il vero riscatto. Si deve vivere, anche per chi avrebbe voluto e beh, non ha vissuto quanto avrebbe sperato come minimo.
...Continua