Confesso che non conoscevo questo romanzo dell'Ortese, per cui incuriosito anche dal fatto che il libro, sebbene Premio Strega nel 1967, è fuori catalogo da anni (in effetti lo si può leggere solo nel I volume dell'opera completa della scrittrice pubblicata da Adelphi) ho voluto procurarmelo sul mercato dell'usato. La meraviglia è stata grande perché della grande scrittrice che conoscevo, quella di “Il Porto di Toledo”, “Il mare non bagna Napoli”, “Il cardillo addolorato”, non c'è traccia. In tutto e per tutto il romanzo sembra scritto da un'altra persona. Innanzitutto, lo stile basso, piatto, da romanzetto popolare rosa, lontano mille miglia dagli slanci visionari delle altre opere; e poi una banalissima storia d’amore adolescenziale incentrata sulla rivalità amorosa di due amiche verso lo stesso uomo, il bellissimo giornalista comunista Gilliat dagli occhi azzurri. L’unico motivo d’interesse può essere lo sfondo storico in cui agiscono i personaggi, la Milano dei primi anni cinquanta, e il fermento editoriale e politico che la caratterizzò. Non è difficile riconoscere la Ortese nei panni di Bettina, protagonista principale e voce narrante, giovane scrittrice alle prime armi e vincitrice del Premio Viareggio. Anche gli altri personaggi sono scrittori, giornalisti o comunque artisti, tutti infatuati dell’ideologia comunista. Questo mito, che passa disinvoltamente sui misfatti di Stalin, pervade l’intero romanzo, ma, e va detto, non c’è alcuna analisi critica, il comunismo viene sempre rappresentato come il sogno, il migliore dei mondi possibili che si realizzerà riscattando i popoli dalle angherie e dalle sofferenze.
Va anche detto che Bettina ha soltanto 18 anni, la Ortese quando vinse il Viareggio nel ‘53 con “Il mare non bagna Napoli” ne aveva quasi 40, e questo può giustificare l’infatuazione del personaggio e la sua ingenuità – e forse anche un prendere le distanze dal suo personaggio da parte della scrittrice – tuttavia il romanzo, a leggerlo oggi, appare, senza se e senza ma, una mera operazione di propaganda di partito. La stessa Ortese, dichiarò che per raccontare un sogno ci voleva coraggio e che per questo aveva anche rinunciato al linguaggio letterario. Sarà, tuttavia resta anche un mistero del perché proprio questa opera, letterariamente insignificante rispetto ai tanti suoi grandi capolavori, sia stata insignita del prestigioso Premio Strega.
Vincitore del Premio Strega del 1967, il libro consta di due parti. Si tratta di due romanzi di cui il primo “Poveri e semplici” dà il nome al volume e il secondo dal titolo “L’iguana”. Due storie, due registri lessicali e due generi completamente diversi, in un connubio quasi innaturale di realistica quotidianità e di fantasiosa allegoria. “Poveri e semplici” è autobiografico, delicato e di piacevole lettura, narra la quotidianità, le aspirazioni e le piccole traversie economiche di un gruppo di giovani, un po’ artisti e un po’ intellettuali, che vivendo e condividendo un appartamento, tenta di sbarcare il lunario nella Milano del dopoguerra che tanto promette e che tanto disillude. Ideali ideologici e ferma fede, quasi millenaristica, in un avvento non tanto lontano del social-comunismo di marca stalinista per il quale si è anche disposti a dare la vita (“io, per la Rivoluzione, perché accadesse, e con essa il risorgimento degli uomini, della terra tutta, mi sentivo che volentieri avrei potuto morire”) non disgiunti da una vaga credenza in un Dio inteso come suprema e benefica bontà. “L’iguana” ha, invece, per protagonista un essere che è un misto indefinito di sembianze umane e di fattezze animali che abita a Ocana, un isola ignota alle cartine geografiche, al largo del Portogallo. Una storia complessa, mai interessante, che nei meandri, spesso aggrovigliati, della lettura si pone qualche domanda esistenziale (“cos'è lo spazio, se non un’ingenua convenzione? E un’isola, una città, il mondo stesso con le sue tumultuose capitali, che altro sono se non il teatro dove il cuore, colpito dai rimorsi, pone i suoi ardenti interrogativi?”). Un’opera che è rimasta incompresa anche ai contemporanei. Dal sapiente uso “tecnico” dello strumento narrativo, Ortese viene da taluni considerata una delle più importanti scrittrici del Novecento. Giudizio decisamente benevolo che comunque non considera figure ben più grandi come Silone, Deledda, Buzzati, Cassola ecc.
...ContinuaNel primo racconto, che da' il titolo al volume, lo stile della Ortese non mi conquista granché, con tutti quei punti esclamativi e quel tono di narrazione vagamente sognante. Però l'atmosfera bohemienne della Milano dell'immediato dopoguerra è ben restituita attraverso il suo racconto, e così pure i moti ondeggianti nell'animo di questa gioventù vagamente intellettuale ma che subisce indifesa gli influssi della stagione, del tempo e degli imprevisti. Questa volubilità dei protagonisti, questi umori ondivaghi, rendono la lettura piuttosto lenta. Il tutto si riferisce agli anni del boom, oppure immediatamente precedenti, eppure non so perché ci sono atmosfere che mi danno la sensazione di essere più applicabili alle difficoltà odierne. Ed in effetti, ricollegandomi a temi di attualità (difficoltà economiche, movimento migratorio da sud verso nord) e ripensando a letture recenti, l'appartamento di via San Celso dove si svolge la vicenda - in cui si rielaborano elementi autobiografici - raccontata dalla Ortese, con il suo povero arredamento e la sua atmosfera letteraria, somiglia molto alla stanzetta dove si troverà qualche anno dopo Bianciardi e che sarà descritta in "La vita agra". C'era un qualcosa, nell'aria di Milano, che hanno ben colto entrambi, solo che nella prima c'è un ottimismo che poi sparirà nel secondo. Sebbene il racconto narri l'incontro e l'innamoramento tra la scrittrice Bettina e il giornalista Gilliat, quello che ne emerge con forza è una unità di affetti e legami costituita da una famiglia allargata e non convenzionale, fatta non di legami di parentela ma solo di fratellanza, comunanza, amicizia, dove lo zio di uno diventa lo zio di tutti, la mamma di uno è la mamma di tutti, un gruppo di persone che da un lato sono state messe insieme dal caso, eppure dall'altro lato si può dire che esse si siano scelte come famiglia e vivono un legame più forte e duraturo delle tante difficoltà che la vita può mettere loro di fronte. L'atmosfera di questa piccola compagnia, di questa piccola "comune", è quel che più ho apprezzato del libro intero.
Il secondo racconto è a dir poco faticoso: il tono della narrazione è meno ingenuo e sognante, molto più solido e strutturato, quasi formale, con un periodare ricco e complesso. Però non sono stata in grado di cogliere le allegorie che la Ortese intendeva proporre. E senza capire le allegorie, quel che resta è solo una strana fiaba narrata con un tono serio e importante, una trama arzigogolata e difficile da seguire nello slalom tra realtà e visioni, atmosfere demoniache che in assenza di valida giustificazione sembrano solo trovate halloweeniane, e contorte dissertazioni filosofiche sul bene e sul male e sulla compassione verso gli esseri più deboli e sulla natura del creato tutto, se esso sia da intendersi come buono o cattivo. Prendendola così com'è, cioè una favola originale, lì per lì mi pareva di apprezzarla più di quel che credevo inizialmente: l'iguana del titolo e "Ocaña", il nome dell'isola immaginaria su cui è ambientata la favola, dapprima non mi ispiravano granché, poi per un poco mi hanno incuriosita, e invece, una lettura davvero faticosa… evidente come l'ampollosità, la ridondanza con cui è raccontata la favola dell'iguana siano la scimmiottatura, la canzonatura di qualcuno o qualcosa… ma chi, o cosa? A lungo andare, procedere nella lettura senza poter dare risposta a queste domande, si è fatto pesante. Ci arrivo in fondo con la vaga curiosità di sapere come va finire la storia - quel poco di trama che ho compreso - ma senza nessuna vera empatia, nessun vero sentimento verso alcuno dei personaggi. Ho provato infine a leggere la prefazione di Alfonso Gatto, per cercare di farmi un'idea del significato di questo ammasso contorto di allucinazioni, ma ci ho capito ancora meno.
Quattro stelle stiracchiate al primo racconto, una stella a tre punte per il secondo. Media: due.
Faticoso, soprattutto il secondo racconto: tenere il filo della trama, fra realtà e fantasia, dare un senso alle allegorie/metafore è stato un esercizio molto duro!
Con questo libro la Ortese vinse il premio strega nel 1967, ben meritato aggiungo io.
Stavolta la narrazione della scrittrice, pur essendo sempre molto “particolare” e vagamente astratta, riesce a comunicare benissimo lo scenario e le speranze di un gruppo di artisti, malamente supportati dalla sorte, le cui difficoltà quotidiane rispecchiano quelle di un’Italia che si sta affacciando timidamente ad una speranza di ripresa dalle vicissitudini dell’ultima guerra.
Lo scenario in cui si svolgono le varie storie è una Milano che di fatto assurge ad un ruolo guida nella ripresa economica del dopoguerra, cullando in maniera concreta molte delle speranze di una vita migliore riposte nel futuro dagli italiani di allora.
Come già detto, la narrazione non è ermetica o criptica come in altri suoi scritti e certi passaggi brillano di una poetica profonda e tipicamente ortesiana.
Un ottimo spaccato su quella che poteva essere la società di allora, dove si era in qualche modo obbligati a sperare in un futuro migliore, visto che l’alternativa era un presente in cui, nella più rosea delle previsioni, non si poteva che essere “Poveri e semplici”…
Qualche esempio:
“Vi era nell’aria un che di irreale, non più come la sera prima, e ho potuto notare come proprio il dolore, mai la gioia, sia dunque veramente irreale.”
“Sembrava che la nostra vita se ne partisse verso l’alto, verso il cielo sereno, che da tempo era sparito, in un mondo dove già grazia e giustizia avevano vinto la pena e l’umiliazione dei giorni umani.”
“Avevo la sensazione che questo mondo, con le sue guerre, fosse superato, che tutto fosse superato… che fossimo insieme tutti, che scendesse o salisse nell’aria bianca una musica… che si alzava, che diveniva sottile, che poi copriva il cielo, copriva tutto. E io non vedevo in ciò alcuna figura umana.”
“E mi dolsi di questo essere umani, di dover vivere recando così spesso involontario dolore, e decisi che il rimedio era non dare poi alla propria vita molta importanza, ma metterla al servizio degli uomini, perché dovunque affiorasse la resurrezione del bene, e tutti fossero lieti.”
...Continua