Dopo La morte di Murat Idrissi ho deciso di leggere questo altro romanzo di Wieringa, colpito dalla sua prosa essenziale, affilata, a volte poetica che va dritta al cervello ed ai sensi, riuscendo a calarti immediatamente nelle situazioni che descrive.
Anche in questo caso la vicenda riguarda l'emigrazione di un gruppo di disperati che scappano dal loro paese, dalla loro casa (chi ce l'aveva) in cerca di qualcosa di meglio e mossi dal sogno di trovarlo. Chi gliel'ha messo in testa questo sogno non si sa..ma è sempre così: qualunque cosa è meglio dell'inferno che hanno a casa loro.
La storia del viaggio è quella di una marcia nella steppa, direzione ovest, tra stenti, fame, freddo e caldo, tradimenti e disperazione. Ancora una volta la narrazione di Wieringa è capace di farti sentire perfino (e soprattutto) gli odori della disperazione. È impietosa, come lo sono i viaggiatori tra di loro. Non nasce amicizia, solidarietà..solo rivalità, solo speranza che qualcuno rimanga indietro e muoia, per poi appropriarsi delle sue scarpe, dei suoi denti d'oro, dei suoi stracci. Wieringa conferma il suo gusto del macabro, per l'horribilis della condizione umana quando è sollecitata all'estremo.
In parallelo c'è la storia di un commissario di polizia che sopravvive tra noia e doveri d'ufficio in una città dell'ex impero sovietico. In qualche maniera decide di dare un senso alla propria vita e compie un viaggio nel suo caso spirituale verso Dio, aiutato, guidato dell'ultimo rabbino della città.
Il racconto si chiude con la considerazione che forse ne racchiude il senso: c'è solo un posto nel mondo che accoglie un migrante e sa dargli una nuova casa e tutta la sua dignità, quella di considerarsi una persona uguale alle altre e non un uomo di serie B. Quella di rispondere alle aspettative di un viaggiatore che ha lasciato la sua casa per trovarne una migliore. Si chiama Israele..ma per essere accolto devi credere nel dio degli ebrei, devi far parte del popolo degli eletti.
Ho trovato il romanzo lungo, nonostante la prosa sintetica. La marcia nella steppa tutti i suoi orrori è estenuante, anche come narrazione..forse è voluto. Poi ci sono un paio di colpi di scena..te li attendi, ma non quando arrivano. C'è anche una dose di pietas, un barlume di ottimismo sui sentimenti dell'uomo.
Ma su tutto prevale una visione negativa, pessimista sulla condizione umana..non solo quella dei migranti, la cui disperazione è prima di tutto fisica, ma anche degli umani che stanno a casa loro, col caldo ed il cibo. Questi sono altrettanto egoisti, senz'anima, mediocri quanto i migranti…e non hanno l'alibi della disperazione.
Giudizio 3/5
...ContinuaSiamo ai confini dell'Impero, alla sua periferia decaduta e mezza dimenticata. Un paese che, magari, ha avuto un passato se non di splendore, quanto meno di una maggior ricchezza culturale e di vita. Ormai ridotto a un buco di funzionari statali corrotti, più per necessità che per avidità, poveracci e gente che tira a campare. Una periferia dove nemmeno nascono più bambini e le culture muoiono e cadono dimenticate. Wieringa si prende tutta la calma del mondo per descriverla, per farci entrare nei suoi meccanismi, nella sua atmosfera apocalittica. Per tutta la prima parte del libro a Michailopoli non accade quasi nulla, come potrebbe? La prima parte, che si prende quasi metà del libro, è dedicata al settaggio di questa atmosfera. In questo buco, in una qualche landa desolata fra Russia, Europa dell'Est e Asia, giunge un gruppo di migranti.
Il gruppo di migranti: una delle intuizioni migliori del libro di Wieringa è di non mitizzarli, di non farci apparire 'ste persone come buone, perfette, pietisticamente perfette. Che è un po' il grosso problema di un certo tipo di narrazione: rendere 'ste persone Migranti, figure mitologiche, prive di una vera e propria umanità. Quasi archetipiche. Wieringa, invece, non ha paura di farcele vedere come persone. Quindi stronze, crudeli, violente, impaurite, attaccate alla vita come cani rabbiosi. Cioè, parliamoci chiaro: è piuttosto facile provare pietas per la madre che rischia la vita per dare un futuro migliore ai suoi figli; molto più difficile provarla per un drogato/spacciatore che ha le gambe in mezza cancrena e non si fa scrupoli a stuprare la donna che viaggia con lui. Non che Wieringa lo giustifichi, sia chiaro. Anzi, si prova un profondo senso di orrore e raccapriccio nel vedere lo stato di violenza e abbrutimento in cui cadono (o si gettano) 'sti cinque-sei tizi mentre attraversano il deserto. Ma, e qui probabilmente sta la verità più dolorosa di Wieringa, sono persone. E le persone quando attraversano un deserto, probabilmente sapendo che stanno andando a morire, diventano stronze, brute, violente, disperate e così via. Oh, per carità, non che vivendo in società non lo siano, soprattutto in un posto come Michailopoli, ma in fondo Michailopoli non è poi così diversa da quel deserto: "Un paese che si trovava al termine del declino progressivo descritto da Confucio. Restava solo il caos. L'ordine sociale era apparente, uno strato opaco di ghiaccio di cui era impossibile valutare lo spessore fin quando non ci mettevi il piede sopra e sprofondavi".
Ecco, quindi, che deserto e città sono la stessa cosa. Non esiste fuga. Non esiste progressione. E' l'Inferno. Ogni solidarietà umana è crollata. La religione, di cui l'ispettore Berg si scopre appartenente, ha fallito proprio perché incapace, imbolsita e invecchiata, di riconoscere gli ultimi come se stessi - e dire che il paragone fra ebrei e migranti viene urlato ed esplicitato diverse volte, sia mitologicamente con Mosè, sia storicamente con i campi di concentramento. Ma Questi sono i nomi è un libro che si chiude con la speranza, perché quel cerchio, quella spirale che sembra aver avvolto l'intero cosmo, viene incrinata - non infranta - da Berg e dalla sua solidarietà. Incrinata, non infranta, perché non riesce ad agire al di fuori delle leggi che regolano la divisione umana, quelle frontiere e quei muri, ma soltanto a sfruttarli a suo favore. Non è una vittoria, in fondo, ma nemmeno una sconfitta. E' un futuro, e questo tante volte basta.
Ok, ora, sto scrivendo queste righe il 6 gennaio 2019. La Sea Watch 3 è bloccata in mare da più di due settimane, con più di 30 persone a bordo. E' l'ennesima nave che non si fa sbarcare. Nel 2018 sono morte più di 2000 persone cercando di attraversare il Mar Mediterraneo.
Nel 1973, Sciascia pubblica Il Lungo Viaggio, racconto su un gruppo di migranti siciliani che viene truffato e anziché portato in America fatto sbarcare a pochi chilometri da casa.
3000 e passa anni fa, gli ebrei si misero in cammino, per 40 anni, attraversando il deserto, in fuga dall'Egitto, verso una Terra Promessa.
Non esiste impero, non esiste terra promessa, è tutta una sterminata Michailopoli.
L'accostamento a Sebald o altri nomi altisonanti mi pare eccessivo; Wieringa però è un buon narratore che sa tenere in vita una storia che non riesce quasi mai a camminare davvero. La parte dei profughi nel deserto è certamente la migliore per come riesce a fondere il postapocalittico a una situazione assolutamente attuale; la parte nella cittadina vive di azioni sospese che riescono ad adeguarsi al mood fino alla questione ebraica; li, pur se denso di significato, l'assenza di azione diventa immobilità e il libro comincia a perdere colpi.
Anche se, a conti fatti, il difetto maggiore è che il libro si lascia dimenticare rapidamente.
Un Wieringa sorprendente, lontano anni luce dai fuochi d’artificio di Joe Speedboat, confeziona qui un gran un romanzo partendo da un tema di triste attualità, quello dei migranti. In Questi sono i nomi due sono le storie che si alternano fino ad incontrarsi e poi diventare una sola: le traversie di un gruppo di disperati che tentano (credono) di fuggire da un non precisato paese dell’Asia seguendo il miraggio di un vita migliore e la storia di Pontus Berg, commissario di polizia in un posto di frontiera, anche lui alla ricerca di qualcosa: la sua identità, capire chi è.
Interessante e originale è il parallelismo tra le peripezie dei migranti e quelle degli ebrei in fuga dall’Egitto, come a dirci che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che i problemi dell’uomo che scappa dall’uomo continuano ad essere gli stessi. Interessante è anche come Wieringa concentri l’attenzione sul fatto che i vari personaggi del racconto, al di là dei bisogni materiali, sentono forte la necessità di credere in qualcosa, di affidare a qualcuno (che sia una divinità o un portafortuna) il ruolo di guida per le loro vite. Interessanti sono poi le riflessioni sulle dinamiche comportamentali del gruppo, su come le difficoltà e l’influenza dell’ambiente ostile facciano regredire l’uomo a livelli subumani, quasi a ricordarci che i comportamenti animali sono una parte di noi che non vogliamo vedere e che fatichiamo a tenere a freno, le stesse dinamiche che, mutatis mutandis, ritroviamo anche nella descrizione delle società delle repubbliche asiatiche post-sovietiche, dove domina la legge del più forte ed imperano ingiustizia e clientelismo.
Questi sono i nomi è un libro sull’uomo, sulle sue domande che non trovano risposte e sulla partita a scacchi che gioca con la vita, scopo della quale, per dirla con le parole del rabbino Eder, “ sarebbe condurre l’avversario in una selva oscura, quella in cui due più due fa cinque, e il sentiero per uscirne è abbastanza largo solo per uno dei due”.
Due viaggi si intersecano nel racconto di questo libro. Il viaggio interiore di un commissario di polizia stanco, corrotto, incarognito nelle sue abitudini, solo. Il viaggio di attraversamento della steppa di un gruppo di profughi affamati e assetati, impauriti e violenti, disperati.
A illuminare entrambi i viaggi, a dare loro un senso, sarà una strana forma di religione. Una religione umana, che non si interroga su Dio ma sul proprio bisogno di purezza, innocenza, verità. Proprio in fondo, proprio nel momento del gradino più buio, senza consolazione ma solo con la feroce determinazione di salvare se stessi, sorgerà qualcosa di forte e illuminante, una consapevolezza che sa di resurrezione.
Niente di mistico, una resurrezione di uomini (che poi, comunque la pensiate, se anche Dio è ultraterreno la religione non lo è, è umana). Che parte da una traversata di un deserto. Fisico o interiore.
Una scrittura asciutta e morbida, un'ambientazione che è quasi fuori dal tempo e dallo spazio, se non fosse per pochi, essenziali, riferimenti che ancorandola ad un qui e un ora precisi le impediscono di farsi metafora, racconto metafisico, parabola.
Un bel libro che mi lascia la voglia di scoprire altro di questo scrittore.
...Continua