Demka e Asja sono giovani, entrambi pazienti oncologici. Si conoscono da non molto, a Demka hanno da poco amputata una gamba, lei ha appena saputo che le asporteranno un seno. Entra nella stanza di lui, prorompe in un pianto disperato, lui cerca di consolarla, senza risultato. Improvvisamente lei si scopre il seno malato e lo offre ai suoi baci, mentre fra le lacrime gli chiede se, almeno lui, ne avrebbe serbato il ricordo. In questo episodio c’è molto del Padiglione Cancro, in cui tutti sono chiamati a fare i conti con la linea sottile che separa la vita, che non sarà comunque più la stessa, e la morte. I pazienti, ognuno disperatamente solo di fronte all'inclemenza della malattia, alle prese con le proprie paure: di perdere quel che si ha, di non aver più tempo di dare un senso compiuto alla propria esistenza o semplicemente di godersi i piaceri di tutti i giorni. I dottori, che convivono quotidianamente con la pietà e i propri dubbi, consapevoli che la terapia a volte è più feroce del male che cura. Sullo sfondo un’Unione Sovietica repressiva, ma in fermento: la destalinizzazione è ormai avviata. Flebile speranza per chi, come Kostoglotov, anela ad una vera vita da ben prima di ammalarsi, dagli anni bui del gulag e del confino, inspiegabile sovvertimento per chi, invece come il gretto Rusanov, ha basato sulla totale adesione ideologica al regime le proprie fortune.
...ContinuaDivisione cancro di Aleksandr Solženicyn (Il Saggiatore) è un viaggio molto impegnativo non soltanto per numero di pagine, ma per tematiche, e preferisco dirvelo subito. Mi sono innamorata di questo autore leggendo Nel primo cerchio e ho sentito il disperato bisogno di sapere di più, di leggere, di documentarmi. Immaginate il mio stupore quando ho scoperto che non è così facile trovare i suoi libri. Ho comprato questa copia, datata 1968, su eBay perché nei negozi e nelle librerie online non riuscivo a trovarlo.
Nel primo cerchio ci trovavamo al chiuso in una prigione ai piedi di Mosca, i personaggi sfilavano davanti ai nostri occhi e noi cercavamo di capire in quale si nascondesse l'autore. Tra discussioni che investivano filosofia, scienza e politica ci ritrovavamo immersi in una realtà in cui erano tutti vittime e tutti carnefici.Ecco, in Padiglione cancro la situazione è la stessa, con la differenza che siamo nell'Asia sovietica, ma l'amarezza è maggiore. Siamo in ospedale e l'aria è ancora più viziata che nella prigione ma le analogie continuano. Esattamente come nei gulag, o nei gironi dell'inferno, chi eri prima di entrare lì conta fino a un certo punto: perché varcata quella soglia tu sei e sarai (anche quando ne uscirai) un ammalato. Funzionario, prigioniero, studente o contadino che cosa può cambiare?L'impressione di trovarsi in una struttura militare è persistente. I medici sembrano, almeno all'inizio dei funzionari senza cuore con i loro camici, gli ammalati dei prigionieri con i loro pigiami.Pàvel Nikolàevič Rusànov è il primo personaggio che incontriamo e no, non sarà il protagonista perché dividerà la scena con gli altri compagni di stanza all'apparenza così diversi da lui. Pasa è un uomo del partito, è quello che si reca in ospedale con il pigiama nuovo e la certezza di essere trattato da paziente speciale.
"La «divisione cancro» era contrassegnata con il numero tredici. Pàvel Nikolàevič Rusànov non era mai stato superstizioso, non era neanche pensabile che lo fosse; tuttavia ebbe un tuffo al cuore quando si vide scrivere sul documento di ricovero «Divisione 13». Possibile non avessero avuto il buon gusto di segnare col tredici il padiglione delle protesi, magari, o quello delle malattie intestinali?"
E così all'inizio guardiamo gli ammalati con gli occhi di chi non si vuole mischiare, gli occhi di crede di non avere un cancro. E proprio su questa parola gioca Solženicyn. C' è chi non la pronuncia, chi è convinto di non avere quel tipo di malattia, chi invece usa l'ironia e deforma quella parola come il veterano Efrèm, chi invece alla fine deve ammettere di averla.Ci sono persone (sì parlo di persone volutamente) che sentiamo di amare subito. E' il caso di Vadìm giovane scienziato che guarda scorrere il tempo con una consapevolezza che lascia inevitabilmente turbati.
RECENSIONE COMPLETA: https://www.lalettricecontrocorrente.it/recensioni/recensione-divisione-cancro-aleksandr-solzenicyn/
Quando ci si accinge a leggere Solženicyn ci si aspetta tanto e, come di consueto, le aspettative non vengono disattese, un libro di spessore, in tutti i sensi; anche se mi ha angosciato molto e per questo vi consiglio di leggerlo quando la vita va bene e siete felici, a più riprese ho pensato di chiuderlo.
Con un frequente e sapiente uso degli articoli determinativi l'autore riesce a coinvolgere e a suggestionare con maestria, gli bastano poche righe per farci entrare nel clima russo: due tratti e siamo già nel vivo della scena.
Ancora non riesco a credere a quanto questo testo sia drammaticamente attuale o forse sarebbe meglio dire che non riesco a credere a quanto retrogradi siano alcuni di noi, che alla scienza medica contrappongono sottoculture e deprecabili teorie del complotto.
L'autore si sofferma e descrive, man mano, i singoli degenti, i loro intrecci, le loro contraddizioni e gli inevitabili conflitti tra gli esponenti del potere politico comunista e "gli altri": gli oppressi e gli ex deportati, che in corsia hanno lo stesso peso.
I pazienti del padiglione finiscono per essere prigionieri dell'ospedale, di quel sistema che Solženicyn conosce fin troppo bene e che non perde occasione per censurare. Quello stesso sistema che i tanti cattivi maestri continuano a non vedere.
Se vi piace il genere realista questo è un libro da non lasciarvi scappare.
Va subito detto che purtroppo prima della lettura il romanzo andrebbe contestualizzato storicamente, dato che contiene molti richiami alla situazione politica russa del periodo post morte di Stalin (quindi dal 1953 al 1955, anno in cui è ambientato), cosa che sarebbe stata gradita in una introduzione o almeno in qualche nota più corposa al testo. Ma è solo un problema dell'edizione, che comunque per essere ultraeconomica sembra di buon livello, molto godibile.
Consiglio prima della lettura di scorrere perciò almeno la biografia dell'autore.
Il romanzo è ambientato nel 1955 in Russia, in un ospedale di una città immaginaria, tra i malati di cancro ospitati nel padiglione oncologico. In questo scenario si muovono malati e dottori, ognuno con la sua storia, spesso drammatica, ma ognuna degna di essere ascoltata. Spesso le vite dei degenti e di chi li cura si intrecciano in modo profondo: c'è chi ha condiviso l'esperienza del lager, chi invece vede sbocciare una passione. Ma il tutto è una metafora forte sul regime comunista, che può disporre della vita di ogni individuo a suo piacimento.
Al netto di tutte le contestualizzazioni storiche e delle letture ideologiche, resta un romanzo di sicuro impatto, originale e capace di fare riflettere sulla condizione umana e soprattutto su cosa voglia dire vivere sotto un regime totalitario. Il furore dell'autore, un'odio cieco verso il regime, è vivissimo lungo tutte le pagine del racconto, anche perché il protagonista del romanzo, Olèg Kostoglòtov, ne è chiaramente un alter-ego.
C'è da dire però che il libro alle volte risulta un po' troppo didascalico: il protagonista Kostoglòtov parte come una furia, ma poi si incarta nei suoi ragionamenti, che risultano spesso disordinati, confusi, vaghi. Inoltre anche l'azione spesso sembra non portare a nulla e "morire" alla fine di un capitolo.
Ciò va implicato soprattutto al fatto che il romanzo si muove solo tra le mura di un ospedale, ma nonostante tutto il racconto funziona, sebbene non sia assolutamente una lettura leggera proprio per le tematiche trattate, ma risulti comunque un romanzo davvero interessante, illuminante in alcuni punti. É una denuncia fortissima delle distorsioni del regime comunista.
É inoltre una fotografia della Russia del periodo: un popolo estremamente variegato, ma tenuto insieme in qualche modo, spesso con la sola paura, in bilico tra il passato fatto di profonde differenze sociali e un presente che quelle differenze forse solo apparentemente ha appiattito.
Come autore metterei Solzenicyn al pari di Zola: entrambi capaci di mostrare magistralmente le più profonde pieghe dell'animo umano, le sue sofferenze e le sue aspirazioni, mentre sono immersi in situazioni più grandi di loro.
Una cosa che mi è piaciuta molto è che l'autore non si nasconde: se deve mostrare, mostra. Non ricorre mai al pietismo. Come un fotografo coglie l'attimo, poi sta al lettore giudicare.
Ho trovato inoltre molto bello (addirittura tenero) il modo in cui viene descritto il rapporto tra la dottoressa Gàngart e Kostoglòtov, una sorta di spirale che piano piano li avvolge, fatta di dubbi e certezze, di sguardi, di attese. Tutt'altra faccenda rispetto alla passioncella fugace di Kostoglòtov con l'infermiera Zòja.
La vita, la morte e tutto quello che sta nel mezzo. L’universalità del dolore nell’inferno della malattia. Politica, desideri, solitudini, amori e malinconie intrecciati tutti dentro un ospedale.