Le prime due pagine sono pura poesia e il libro è straordinario nel suo descrivere ordinari dolori e problemi.
Libro di imbarazzante bruttezza.
Molto brevemente la storia: due giorni della vita di madre e figlio (lei, malata completamente dipendente dalle cure di lui e del marito che la lascia sfinito da quella vita; lui, goffo, balbuziente, un coacervo di complessi); succedono vari disastri, tra cui anche un mezzo incidente nucleare, fino a che il figlio quasi dà retta alla madre che gli chiede di farla finita ma non ce la fa e scappa verso il mare consolatorio (molto I 400 colpi..).
Ma si potrà scrivere una baggianata simile?Personaggi irreali e costruiti per smuovere la compassione del lettore, descrizioni che vorrebbero dimostrare l'ironia dell'autore ma si dilungano inutilmente anche solo per dire come scende le scale il tizio.
Veramente il peggio di un certo genere di scrittura in voga negli anni novanta.
Quello di Rosso americano è un pigmento cupo, di origine organica, che sfuma in un violetto carico. Purple America. Sì, l’America di Moody è veramente una tela imbrattata di pennellate di colore porpora, ma è anche l’America classica dei cheeseburger, delle montagne imporporate e delle grandi pianure fertili, di quelle pianure e di quelle famiglie religiose che hanno liberato il West dalla piaga dei pellerossa.
Rosso americano è il racconto di due giorni della vita di Dexter, un uomo prossimo a compiere quarant’anni, costretto a tornare nella cittadina dove è nato e cresciuto – Fenwick, Connecticut – per prendersi cura della madre paraplegica, Billie. Mentre alcuni importanti frammenti del suo passato tornano a galla, Dexter e l’intera città devono fare i conti con un problema importante: c’è stato un incidente alla centrale nucleare. Frattanto la salute di Billie comincia a decadere finché il figlio, su ordine della madre, è obbligato a prendere una decisione straziante, la più importante della sua vita.
I temi centrali di questo piccolo romanzo della Vita sono l’incomunicabilità – causata dalla malattia – e il rimorso. Billie è costretta alla carrozzina e al letto, non può concedersi bagni troppo caldi, fa fatica a mangiare e parla sempre meno, perché la malattia le sta togliendo anche questa facoltà, l’unica che le permette di mantenere una connessione col mondo. A malapena ora la capiscono il figlio e il compagno, Lou. In compenso un computer avanzato permette a Billie di comunicare per mezzo di una voce robotica, ma lei non può accettarla, non può accettare una sostituta, né di essere la zavorra personale o finanziaria. Non vuole accettare il frustrante, lento e progressivo decadimento corporeo. Quel suo povero corpo.
Anche Dexter è condannato a non farsi capire, vittima di una balbuzie perenne che lo accompagna da sempre. Quindi si appoggia all’alcol, che forse è l’unico a cancellare per un momento il peso del disprezzo che nutre per se stesso. Dexter e Billie, due corpi, due volti e due famigliari avvolti da un’ombra oscura, quella dell’eutanasia: una presenza incombente, indigeribile, che Dexter non riesce ad accogliere e che tanto egoisticamente disapprova. La pietà però è generosa. E cristiana.
La verità è che Dexter non ascolta, è troppo egoista per farlo. Un po’ si odia perché può camminare, perché è disorganizzato, perché è disgraziatamente irresponsabile, perché non vale niente. E perché beve. Troppo. Non fa che causare problemi. Insomma, la sua vita è una somma di delusioni, questo lo sa fin troppo bene. E lo sa da sempre, dal giorno in cui ha detto la sua prima parola, che è stata scusa.
All’inizio del romanzo Lou, compagno di Billie e patrigno di Dexter, è in fuga dalle responsabilità, ha abbandonato la moglie perché sa che non può continuare a starle accanto, e proprio in quegli istanti scopre anche di essere coinvolto nell’incidente nucleare. Se solo fosse stato più attento, se solo fosse stato più responsabile. Ecco allora che si formano i due volti di Rosso americano: la malata Billie curata dal figlio alcolizzato, e il fuggitivo e disperato Lou, che, esattamente come Dexter, vive segretamente un supplizio eterno.
Malattia – senso di colpa – responsabilità: è questa fusione a tenere in vita i personaggi. Billie, in cerca di liberazione della paralisi; Lou, vittima dei rimorsi; Dexter, in preda al panico e costretto ad agire subito. Con uno stile icastico, pungente, grottesco ma anche colorato e fluido, Moody ci imprigiona in un ambiente avvelenato, inquinato, reale, dove l’ansia, l’angoscia e l’asma tipica di chi è oberato di colpe e consapevolezze ci offrono una storia al limite della vita. In un mondo sciupato da un potente disinteresse imperdonabile, Moody non aspetta altro che criticare, o meglio, criticarci. La terra è inquinata, l’aria è pesante, il suolo è gravido di elementi nocivi, la nostra stessa vita è artificiale e chimica. Cosa c’è di inventato in tutto questo?
Billie dice a Dexter che la pietà è generosa e cristiana. Infatti. Ma quanto c’è di generoso nel privare a qualcuno della libertà di vivere, e di morire?
Quando la differenza la fa lo scrittore.
Moody sembra vivisezionare la realtà, forse davvero al pari di D. F. Wallace come si dice.