Al di là dello stile spesso ermetico e allusivo, che caratterizza la prosa scientifica di àmbito umanistico tra gli anni Cinquanta e Settanta (si veda, in Italia, l’esempio del filologo Gianfranco Contini), gli scritti di Jacques Lacan hanno il pregio di salvare la lezione freudiana dalla stereotipia e dalla presunta ortodossia degli epigoni, in aperta polemica con la deriva statunitense della psicoanalisi.
Fin dalla relazione sullo stadio dello specchio nella formazione dell’Io (oggi degna di approfondimenti ulteriori grazie alla scoperta dei neuroni-specchio) l’analisi lacaniana si appunta sulle relazioni tra l’immaginario e il simbolico, con un rovesciamento della prospettiva freudiana, grazie al quale la castrazione («il nome del padre») è vista come funzione indispensabile per salvare l’Io dalla madre-coccodrillo, che altrimenti ingoierebbe il bambino.
Il triangolo parola-fantasma-desiderio risulterà prezioso per la critica letteraria: basti pensare al libro di Giorgio Agamben “Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale”. Se l’inconscio è linguaggio, e se il linguaggio è una catena associativo-sostitutiva, allora la relazione tra i significanti è il dato essenziale nel discorso analitico, ancor più del significato. Interpretare significa, etimologicamente, farsi mediatori in una compravendita; in altre parole, l’analista deve mettere in comunicazione le varie parti della psiche affinché si arrivi a una piena integrazione del soggetto. Ed ecco la metafora della partita a poker, giocata dall’analista con silenzi altrettanto se non più efficaci di ogni commento.
Diamo qui un florilegio di intuizioni lacaniane, alcune non ancora debitamente studiate:
1) «lo stadio dello specchio è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione [...] ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale»;
2) «l’arte dell’analista dev’essere quella di sospendere le certezze del soggetto, finché se ne consumino gli ultimi miraggi»;
3) «L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: è il capitolo censurato»;
4) «Ellissi e pleonasmo, iperbato o sillessi, regressione, ripetizione, apposizione, sono gli spostamenti sintattici, metafora, catacresi, antonomasia, allegoria, metonimia e sineddoche, le condensazioni semantiche [...] con cui il soggetto modula il suo discorso onirico»;
5) «È nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge»;
6) «la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare»;
7) «L’ossessivo manifesta [...] uno degli atteggiamenti che Hegel non ha svolto nella sua dialettica del servo e del padrone [...] egli è nel momento anticipato della morte del padrone a partire dal quale vivrà, ma aspettando il quale si identifica a lui come morto, e in questo modo egli stesso è già morto»;
8) «”Fort! Da! Già nella sua solitudine il desiderio del piccolo d’uomo è diventato il desiderio di un altro, di un alter ego che lo domina e il cui oggetto di desiderio è ormai la sua stessa pena»;
9) «Se ho detto che l’inconscio è il discorso dell’Altro con l’A maiuscola, è per indicare l’aldilà in cui il riconoscimento del desiderio si lega al desiderio di riconoscimento»;
10) «il sintomo è una metafora [...] così come il desiderio è una metonimia»;
11) «[l’ossessivo] nega il desiderio dell’Altro formando il suo fantasma nel senso di accentuare l’impossibilità dell’evanescenza del soggetto [...] nell’isterico il desiderio si conserva soltanto nell’insoddisfazione che gli deriva dal fatto di sottrarglisi come oggetto»;
12) «Ciò che il nevrotico non vuole e che rifiuta con accanimento fino alla fine dell’analisi, è di sacrificare la castrazione al godimento dell’Altro, lasciando che gli serva»;
13) «La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio».
A ciascuno il suo.