Palloso non nel senso di pallone ma veramente un libro ignobile.
Se lo trovate in un mercatino e costa 1 euro lasciatelo la e con l'euro andate a bervi un caffé.
Non avevo ovviamente grandi aspettative, ma anche quelle poche sono state disattese. Concetti banali e scontati, ripetuti e ripetuti. Noioso.
Le autobiografie scritte (anzi, scritte da giornalisti) da calciatori sono quasi sempre noiosissime e scontate. Vialli ha fatto qualcos'altro: questo libro non è una biografia, manco per niente, ma una riflessione sul calcio inglese e la sua storia affascinante. Ed è una riflessione intelligente e sorprendente per sagacia e onestà che potrebbe farci comodo oggi più che mai per comprendere le essenziali differenze tra il calcio inglese e quello italiano, nonché i diversi modi di approccio del pubblico da parte di chi ha vissuto entrambe le esperienze... "sul campo". Consigliato a chi ama questo sport anche se se ne è allontanato per motivi extra calcistici come il sottoscritto.
...ContinuaLibro veramente bello sulla differenza tra le culture calcistiche di Italia e Inghilterra, sul ruolo dei procuratori, degli allenatori e dei dirigenti, con tanto spazio anche per la parte negativa di questo sport: non può mancare nella libreria di ogni appassionato di calcio!
...ContinuaL'ultima volta che ho visto per intero una partita di calcio non avevo ancora fatto sesso, ascoltato un disco di Coltrane o preso un aereo. A malapena distinguo Totti da Del Piero, figuriamoci sapere di chi sia il faccione sulla copertina, anche se ora lo so e so anche, e per fortuna, che questo libro non è la sua autobiografia ma uno sfiziosissimo , pare assurdo ma è così, trattato intorno al darwinismo applicato al calcio per illustrare le differenze tra due blasonate (non so se siano blasonate ma non mi capita spesso di poter scrivere "blasonate") tradizioni calcistiche: l'inglese e l'italiana. Perché dal punto di vista più basso della piramide l'intelligenza calcistica che si sviluppa, almeno a dar credito ai due autori, è questione geofisica, culturale, politica. E' questione di quale rispetto si abbia come cittadini dei due paesi verso l'autorità, questione di classe sociale, di tasso alcolico, del giocare da bambini in cortili metropolitani o in pianure battute dal vento. Il tomo è suddivis in tre parti: il giocatore, l'allenatore e tutto il resto (soldi, media, tifo ecc...). Io ho letto solo la prima, perchè voglio tenermi stretti i miei ignoranti pregiudizi verso il ruolo dell'allenatore, nei suoi riguardi sono come quelli che ascoltando un'orchestra si chiedono a cosa serva il direttore ( e spesso se lo chiedono anche gli orchestrali), e poi è una lettura estiva e le letture estive, si sa, son come gli amori mordi e fuggi, si ricordano ma senza rimpianti. E poi, ad andar dietro al loro gioco, dei due autori, ho scoperto alcune cose su di me.
Sono appartenuto, probabilmente, all'ultima generazione che ha avuto la possibilità di giocar per strada e quindi, data la mia poca passione per il calcio ufficiale, l'unico calcio da me mai praticato/conosciuto è quello sull'asfalto. Ho passato l'infanzia in una città fatta di colline, di discese e salite violente, d'inverno sferzata da un venticello che sale su dal mare (praticamente la San Francisco dell'Adriatico :) ) che neppure Archimede avrebbe saputo calcolare le traiettorie controvento del glorioso Supertele, abitavo sul colle più alto e le partitelle quotidiane si svolgevano su un fascio d'asfalto sanpietrinato con una pendenza vorticosa, le interruzioni per il passaggio delle macchine erano frequenti e le azioni di gioco dovevano essere di conseguenza velocissime e frenetiche. Io ero un giocatore ambito, uno dei primi a essere scelto nella classica conta dei piccoli capitani honoris causa. Di me erano apprezzate la velocità bruciante, la tenuta di di fiato in salita e soprattutto la mia proverbiale ma elegante scorrettezza, la capacità di saper individuare il punto debole della catena avversaria, di solito il ragazzino d'animo nobile, il Nemecsek della situazione, a cui assestare una canagliesca gomitata nello sterno in mezzo all'area (quando per errore beccavo il Franti allora erano botte) per poter poi agilmente infilare il portiere (l'assestare gomitate nell'area avversaria è una delle cose che ricordo con più piacere della mia infanzia, un momento di rude mascolinità, di rito formativo: sarà per questo che l'unico sport che seguo è il basket, dove la gomitata infame è ancora una delle regole non scritte del gioco). Insomma, se le teorie football evoluzionistiche del duo di autori fossero vere, io, date le condizioni topografiche della mia città natale, quelle climatiche e la mia tendenza al gioco veloce e rude dovrei essere un suddito di sua Maestà, un bevitore di birra senza neuroni funzionati scientificamente progettato per un gioco maschio e senza schemi. Sarà.