Scrittura semplice e asciutta per non dire elementare, riflessioni scarne per non dire inesistenti. Non paragoniamolo a Levi! Considerato dal punto di vista puramente letterario un libro decisamente brutto . Noioso, sciapo come la “sbobba” e scritto male. Sul finale si abbozza un tentativo diriflessione spirituale che speravo risollevasse le sorti del libro e ne giustificasse la lettura invece niente, un tentativo che tocca gli abissi della banalità. Peccato. Da un premio Nobel mi aspettavo qualcosina in più. Per citare il libro “l’arte non è il cosa ma il come“. Ecco appunto… L’arte è un’altra cosa.
...ContinuaQuanto pesano le parole?
Parole su carta. Parole dure, fredde, scarne, essenziali. Parole vere. Parole vive. Parole che sono chiodi, ognuno dei quali crocifigge sull'Altare della Storia l'Ideale di chi, volendo portare il Cielo sulla Terra vi ha trasferito l'Inferno. Un inferno di ghiaccio e neve simile al Cocito Dantesco.
Il libro è il resoconto dettagliato -raccontato con stile semplice, senza enfasi, senza commenti, senza condanne- di una qualunque giornata di un detenuto qualsiasi all’interno di uno dei tanti campi di concentramento stalinisti sparsi per la Siberia. In un giorno qualsiasi del 1951, in un gulag siberiano, con una temperatura di 27° sotto zero (le regole del campo prescrivono che solo con una temperatura di almeno 40° sotto zero non si esce per lavorare), il prigioniero Sč-854 (numero di matricola nel Gulag del protagonista, Ivan Denisovic Suchov) si sveglia come ogni mattina alle 5; il breve arco di tempo tra il risveglio e la colazione è uno dei pochi momenti "liberi" della giornata. Seguiranno le ore di marcia, le perquisizioni, le ore di lavoro forzato, di nuovo la marcia, le perquisizioni, il timore della prigione, il magro cibo. Una intera giornata dominata dall’ossessione di ripararsi dal freddo, di placare la fame e il bisogno di sonno: ricordi, emozioni e pensieri sono scomparsi dalla mente di Ivan. Una giornata qualsiasi, sempre uguale ed identica ad altre tremilaseicentocinquantatré giornate come quella più tre per colpa degli anni bisestili , equivalente ai 10 anni di condanna di campo di lavoro, che rappresenta la sentenza standard. La vera condanna di Ivan Denisovic consisterà infatti nel reiterare, come un novello Sisifo, fino alla morte la sua giornata nel campo di lavoro staliniano. Eppure , alla fine della giornata, Suchov si addormenta pensando che quella è stata comunque una giornata positiva, dimostrando come sia possibile per l'uomo conservare intatta la propria dignità umana pur essendo immerso in un "inferno". Finisce così questo romanzo breve. Parole semplici, che pure ebbero l'effetto di un detonatore. Parole che fecero scoprire al mondo intero la realtà dei gulag comunisti. Evidentemente, le parole hanno un certo peso. In qualche caso, forse, hanno più peso, addirittura, degli atti, dei fatti e dei misfatti che la storia ci tramanda.
Naturale viene il confronto con Primo Levi e mi ritornano alla mente le parole di Philip Roth quando dichiarò che dopo "Se questo è un uomo" nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell'esistenza Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas. Dopo Solzenicyn non posso più dire di non essere stato in un gulag. Di tale genere la potenza di queste pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l'argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l'informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare.
La potenza stessa che faceva temere di più ai governi sovietici Boris Pasternak e Il dottor Zivago e I Racconti di Kolyma di Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare, gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese cieche e mute.
Libro che è una grande testimonianza storica e di una lucida e asciutta fattura letteraria. Solzenicyn racconta una giornata di un prigioniero in un campo di lavoro siberiano, dall'alba al momento di andare a dormire. Racconto che può sembrare privo di interesse, didascalico dato anche lo stile letterario molto asciutto e concreto ma che in realtà è pieno di una dolente umanità, come quella dei protagonisti del racconto. Le azioni, i sotterfugi, la piccole e grandi astuzie, i ruoli del vessato e del vessatore, la lotta quasi scientifica per il cibo e per il caldo e comunque, la volontà di sentirsi ancora umani attraverso il lavoro ben fatto, che "ti fa dimenticare dove sei e in che condizioni", ultima barlume di dignità di essere umani fagocitati dal regime comunista che sembrano tanti fantocci kafkiani rei soltanto di non essere allineati al 100% con l'ideologia comunista.
Il protagonista non è buono né cattivo, ma un essere umano che fa di tutto per sopravvivere nelle migliori condizioni possibili, per "far passare un altro giorno" e cercare di non essere una carogna come i prepotenti del gulag. Si capisce la brutalità e l'umanità in 170 pagine di grande letteratura che è tale proprio perché è capace di rendere in prima persona eccezionali privazioni e sofferenze senza scadere nel pietismo ma, anzi, trasmettendo come l'essere umano interagisce in condizioni così estreme di privazione della libertà, che non è strettamente fisica ma psicologica e materiale, che raggiunge il suo culmine nella privazione di cibo e beni personali.
Gli altri due racconti sono un'altra testimonianza della spersonalizzazione dell'essere umano sotto il regime comunista, attraverso la figura di Matrjona, una veccia contadina russa che è vista solo come una persona di cui approfittarsi data la sua bontà e di un ufficiale addetto allo smistamento treni merci che per un assurdo sospetto fa arrestare un rifugiato russo in fuga dal fronte della guerra con i tedeschi, realizzando materialmente l'assurdo senso del dovere patriottico di fedeltà al potere dl popolo di cui vengono imbevuti i giovani ufficiali dell'esercito sovietico.
Il tutto negli anni 60' in un paese in cui si stava avviando una complessa destalinizzazione e che vedrà la recrudescenza vessatoria del potere sotto Breznev. Libro da leggere e tenere sempre a mente come monito contro le aberrazioni morali a cui porta l'ideologia politica di ogni colore.
NA85
Il Nobel a Solzenicyn è pura propaganda politica, data la sua scrittura estremamente povera ed infantile. Che vergogna.