Non conosco Max Stèfani, ma, dopo quasi trent’anni di frequentazione sulle pagine de ‘Il mucchio selvaggio’ (dal numero 84, Jimmy Page in copertina), una qualche idea me la sono fatta. L’uomo ha i suoi difetti – la propensione ai comportamenti da cazzaro, il ‘qui comando io’ e l’ego sovradimensionato i più evidenti – ma l’aver fatto crescere e prosperare un giornale come il Mucchio in un Paese che non ha certo il rock nel suo dna e, nel frattempo, aver mostrato la capacità di riconoscere il talento di molti sconosciuti li compensano ampiamente. In fondo, è un uomo fortunato, uno di quelli che hanno potuto trasformare la passione giovanile nel mestiere di una vita, ma bisogna riconoscere che non tutti avrebbero saputo navigare tra gli scazzi, le difficoltà e pure i colpi a tradimento in un settore che non può garantire certo i grandi numeri. Tutto questo è raccontato in questo libro di grande formato e carta lucida, arricchito da numerose fotografie, riproduzione di copertine (di giornali che, per la maggior parte, sono passati a miglior vita) e testimonianze dei protagonisti in quello che è anche uno spaccato di quasi mezzo secolo di editoria musicale (cartacea e radiofonica) nel nostro Paese in materia di rock e affini. In ogni caso, il Mucchio resta sempre protagonista, con le sue mille evoluzioni, la lenta trasformazione dal grado appena sopra la fanzine a giornale capace di parlare non solo di musica da un punto di vista magari provocatorio ma, almeno nelle intenzioni, sempre personale. Ovviamente, il punto di vista è uno solo e questo si avverte soprattutto nella narrazione dei momenti di crisi, compreso quello peggiore che si concluderà con l’allontanamento di Stèfani dal suo giornale: l’unico giudizio che può dare il lettore deve riguardare i risultati e, per quel che può contare, il sottoscritto pensa che il nuovo Mucchio sia una pallida versione del precedente, come se gli mancasse la grinta (oltre che qualche firma ‘pesante’). Il libro, comunque, si legge con estrema scorrevolezza grazie a una scrittura in cui ben si riconosce la sintassi asciutta, a volte pure troppo, del suo autore - anche se, e non dovrebbe esserci bisogno di dirlo, bisogna essere interessati alla materia. Peccato solo per qualche errore di troppo, probabilmente frutto di una certa fretta nella preparazione del volume: non mi son messo certo a spulciare le liste come qualche pedante, ma alcune ripetizioni di concetti nel testo sono proprio fastidiose, per non parlare della coltellata data dal pronome ‘gli’ usato al posto di ‘le’. Aspetti che non inficiano l’interesse complessivo di ‘Wild thing’, accresciuto invece dalla dedica autografata posta sulla prima pagina.
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