L’emancipazione di Giadina , chiamata quasi sempre col diminutivo perché sembrava una bambina anche da adulta , dai tempi della grande fame durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale a Legnano , prima di riunirsi con la mamma partita per inseguire il suo sogno di raggiungere “La grande A” cioè l’Africa , l’Eritrea , dove ad Assab ha aperto un bar , per poi rientrare in Italia negli anni ‘60 , quelli della rinascita.
Una storia di lavoro e di fatica , di una vita difficile in un paese diverso con un clima inospitale nel quale lei sposa Giacomo , un giovane che assomigliava a Cary Grant e che “per le strade d’Asmara dava pacche sulle spalle ai neri, ai blu , ai verdi …” .
Ma se Giada è la protagonista emblematica di ciò che è successo a tanti italiani che hanno creduto al miraggio di fare fortuna nel grande impero in terra d’Africa di mussoliniana memoria salvo poi tornare più o meno come sono partiti , la figura più corposa e pregnante della narrazione è certamente quella di Adele , “Adi “ al modo dei maschi , “la madre che madre non sapeva fare, la donna che donna non sapeva fare , tutta contorta, raggrumata come una besciamella venuta male , testuggine e sirena, con le sue fisse da montanara e le sue pose bislacche da diva del grande schermo , le sue opinioni che guai a contraddirle, le scarpe di cavallino che guai a rovinarle, peste e bubboni assicurati, il parlare con il fumo in bocca . “.
Un romanzo interessante , rievocativo di un momento della nostra storia certamente da ricordare , espresso con uno stile fresco e diretto , spesso con periodi scritti proprio come si parla in ambienti non troppo acculturati , che colpisce proprio per la sua immediatezza.
Un positivo esordio di Giulia Caminito fra i miei autori e quattro stelle d’incoraggiamento.
P.S. : verso la fine del capitolo IX c’è un susseguirsi di frasi identiche , ripetute più volte , che mi hanno fatto pensare ad un difetto della versione digitale del romanzo prima di rendermi che si tratta invece di un efficace espediente per sottolineare l’intensità del momento narrativo .
Le vite di chi ha vissuto prima di noi hanno sempre una cifra magnetica e un’altra di inespugnabile mistero.
I nonni non li ho conosciuti, ma le nonne sì.
Raccontavano di balere, di kilometri in bicicletta per andare al lavoro a Milano su strade buie, a volte non asfaltate e sicuramente non illuminate. Raccontavano della guerra, di furti nei campi a rubar patate. Dell’unica bambola regalata a Natale, rimessa in cantina pochi giorni dopo e ri-regalata l’anno successivo. Raccontavano di bacchette sulle dita alle scuole elementari, le uniche che hanno frequentato. Raccontavano di padri partiti per la guerra in Grecia, in Russia, in Albania; dell’uniforme da indossare per andare a scuola, di lavori da sarte e operaie, tante ore al giorno, in silenzio e con mani leste senza tempo per vezzi o confidenze.
Raccontavano poco, in realtà.
E raccontavano in una lingua che era dialetto e italiano insieme, ma più dialetto e spesso un dialetto antico che non si parlava nemmeno più.
Giulia Caminito è giovane e scrive in italiano, eppure sa rievocare perfettamente quella lingua. I silenzi, le pause, gli accenti. A leggerla a volte si percepiscono anche il frusciare delle sottogonne sulle ginocchia, l’odore abbrustolito dei camini nelle case o i gesti stanchi e accaldati di chi ha vissuto nel deserto.
Capisco che sia una scrittura che può non piacere o sembrare poco accessibile.
Ma credo che chi ha trascorso del tempo coi propri nonni, da bambino, a farsi spiegare come si curano i pomodori nell’orto o farsi correggere le dita all’uncinetto, non potrà che riconoscere in queste pagine la stessa voce, gli occhi liquidi di ricordi, il viso segnato dal sole o dal freddo.
A me ha regalato quelle voci che non posso ascoltare più. E di questo le sono grata.
Con gli anni, Goffredo Fofi non ha perso l'abitudine di sbilanciarsi nei giudizi né quella, ogni tanto, di prendere cantonate; e io non ho perso l’abitudine di cascarci. Ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto che Giulia Caminito è “tra i pochi scriventi degni di essere chiamati scrittori”, per lo stile “originale e sicuro, frasi brevi, continui a capo, concretezza e curiosità da adolescente”. E poi l'Africa, gli anni Sessanta, gli espatriati: sono andato di corsa in libreria.
Poi, invece, ho fatto fatica a non abbandonarlo, questo libro. Storia di famiglia, nel filone le-donne-affrontano-qualsiasi-difficoltà, ci mette 50 pagine a entrare in argomento. Poi, come dio vuole, la piccola protagonista Giada (piccola di dimensioni, porta il 35 di scarpe) approda in Eritrea dalla mamma avventurosa e fuggiasca, e finalmente la storia decolla. Bella la scena della pioggia, bella la descrizione della gazzella Checco che impara a stare in piedi. Cento pagine ma poi, simultaneamente, la protagonista e il libro si impantanano: la prima in un matrimonio senza senso, il secondo in mezzo a vicende scontate. Gli ultimi capitoli sembrano interminabili. Leggo che di mestiere l’autrice fa la editor; ecco, un editor che le avesse fatto tagliare cento pagine sarebbe servito.
Sarebbe servito, ma non bastato, perché il problema più grande è proprio lo stile, i continui a capo che sono tanto piaciuti a Fofi. Questa è una storia che avrebbe potuto, anzi dovuto, avere un respiro epico. E invece il lessico privo di inventiva, le frasi semplici al limite della banalità, spargono su tutto un’atmosfera di routine, domestica, casalinga, e gli odori di minestrone finiscono per sovrastare i profumi di spezie dell’ex Africa Orientale italiana. Caminito non ha, o non ha ancora, mezzi letterari all’altezza della storia che intende raccontare; il risultato è deludente, è un libro che soprattutto annoia pur avendo gli ingredienti giusti per appassionare.