Sono solo 52 pagine, ma questo è uno dei libri piu’ impressionanti che abbia mai letto, e non scherzo.
Si tratta di due brevissimi racconti di Jules Verne, pubblicati postumi nel 1910 assieme ad altri suoi ultimi scritti nel volume “Ieri e domani”. Come vedremo, non potrebbero essere piu’ diversi, anche se hanno almeno un elemento in comune.
Del primo racconto avevo sentito parlare alla fine degli anni ‘80 in un TG, dove si diceva che Verne aveva avuto delle intuizioni a dir poco prodigiose sui progressi tecnici che si stavano realizzando proprio in quel periodo: il computer, la videoconferenza, i viaggi supersonici, il fax e la posta elettronica e via dicendo. E’ stato questo lontano ricordo la molla che mi ha spinto a comprare il libro.
Posso confermare che è tutto vero, anzi c’è molto di piu’. Il tono è quello di una satira - un aspetto che sembra essere sfuggito alla traduttrice Antonella Costa nella sua introduzione - ma è una di quelle satire che fanno rabbrividire perché le previsioni si sono avverate in modo ben piu’ inquietante di quanto Verne immaginasse.
Prima di tutto, l’intuizione assolutamente geniale che il potere del futuro si sarebbe basato non solo sul denaro, ma soprattutto sui mezzi d’informazione, e che i magnati dei media sarebbero stati i veri governatori del mondo. Francis Bennett, il protagonista, proprietario dell’”Earth Herald” è una figura straordinariamente anticipatrice dei “media tycoons” come Rupert Murdoch e Ted Turner. L’”Earth Herald” è il piu’ importante quotidiano al mondo - dal racconto si direbbe anche l’unico - e può essere letto in edizione teletrasmessa (badate: questo fu scritto nel 1905 al piu’ tardi, anno della morte di Verne).
In Bennett possiamo riconoscere con sconcertante anticipo molti dei tratti degli attuali padroni della Rete: l’assoluta mancanza di senso morale in nome degli affari; l’abuso della scienza, che arriva fino alla creazione dell’uomo in laboratorio e tenta inutilmente di resuscitare i morti (una delle scene piu’ sinistre del racconto, naturalmente trasmessa in mondovisione), persino i deliri climatici alla Greta Thunberg & Bill Gates: abolizione delle stagioni, creazione di nuvole artificiali su cui proiettare immensi messaggi pubblicitari visibili sul territorio di intere nazioni.
Ma Verne va persino oltre, e arriva a intuire che ormai la politica ha perso d’importanza di fronte a un simile potere dei media. Sui suoi giornali, Bennett tratta come uno zimbello il Presidente Wilcox e riceve con alterigia i diplomatici degli stati esteri, dispensando consigli (anche qui un’anticipazione sconcertante: la politica del figlio unico in Cina!) e persino disprezzo e umiliazioni. Quanto ai processi, non è nemmeno necessario che siano celebrati: basta che l’opinione pubblica (abilmente imbeccata dai suoi giornali) sia convinta della colpevolezza dell’imputato per passare immediatamente alla condanna a morte e all’esecuzione. Non vi ricorda i processi mediatici e i linciaggi sui social?
Se il primo racconto è sensazionale nelle sue anticipazioni, il secondo, “Frritt-Flacc” è sorprendente perché svela un lato oscuro, angosciante della personalità di Verne. Siamo in un mondo tetro, umbratile, confinato in un tempo e di uno spazio immensamente remoti, perennemente battuto dalla pioggia, dalle tempeste e dai vulcani. Non anticipo la trama, posso dire soltanto che l’avidità e la spietatezza del protagonista ricevono una punizione metafisica, ultraterrena, che ha ben poco da invidiare ai racconti del terrore di E. A. Poe.
Qual è l’elemento in comune dei due racconti? L’amore di Verne per la geografia, per i luoghi. Nel primo caso i luoghi e le distanze sono grosso modo reali, anche se Centropolis, dove hanno sede sia l’”Earth Herald” che il governo statunitense, è una città immaginaria. L’effetto complessivo, tuttavia, è creare una familiarità, un mondo dove il lettore può ancora riconoscersi. Nel secondo caso è tutto inventato, e l’Autore si prende doppiamente gioco del lettore: lo ammonisce che il villaggio di Luktrop non si trova su nessuna carta geografica, ma al tempo stesso sciorina con sconcertante sicurezza unità di misura, monete, nomi di oceani e di vulcani totalmente immaginari e senza riscontro possibile. Come se fossero troppo noti per essere spiegati. Questo crea nel lettore un fortissimo effetto di sconcerto e di spaesamento come negli incubi, ed è proprio quello il risultato che Verne vuole raggiungere: un incubo sempre piu’ angoscioso che esplode alla fine in una catastrofe.
Un libretto estremamente rivelatore della personalità di uno scrittore troppo spesso “tradito” e ridotto ad “autore per ragazzi”. Da un lato è un complimento - se sai parlare ai ragazzi vuol dire che sai farti capire da tutti - ma dall’altro è riduttivo. Verne indubbiamente era un genio, un grande scrittore ma non un grande artista. La differenza è molto sottile: possiamo dire soltanto che il grande scrittore ci mostra il suo mondo, il grande artista ci fa entrare nel suo mondo. Il grande artista ci rende partecipi dei suoi personaggi come un grande scrittore non riesce purtroppo a fare, quale che sia la potenza della sua immaginazione. Credo sia questo il caso di Verne, ma gli va senz’altro riconosciuta una grandissima versatilità, una curiosità inesauribile e soprattutto una potenza di intuizione fuori dal comune per dedurre il futuro anche piu’ remoto dagli scarni elementi che gli offriva il presente.