Ci sono scrittori a cui davvero bastano poche pagine per aprire un mondo intero al lettore, fatto di ambienti, situazioni e personaggi che appaiono chiari e nitidi sotto la luce abilmente diffusa dallo scrittore.
Come il pittore a cui bastano poche pennellate per rendere vivi i colori, Joyce dà vita al suo racconto fatto di nemmeno sessanta pagine nel quale passano in rassegna le vite di uomini e donne a tratti felici, sicuramente spensierati.
Ma basta che appena appena lo scrittore smorzi attenui, modifichi il flusso della luce, ne cambia direzione e la rende diffusa per poi disperderne potenza e calore, fino a passare da un colore caldo ad una luce fredda e glaciale che tutto il mondo costruito nelle precedenti pagine cambia totalmente scenario e fondale.
Nel gioco di luci di Joyce prevale all'ultimo l'arido raggio inviato dalla morte: luce bianca somma di tutti i colori, luminosa ma senza calore per potere imprimere ancor di più il suo potere.
"One by one, they were all becoming shades"
Con Joyce sono tornata a scuola.
Con il testo a fronte torno a pensare alle parole.
A isolarle anche quando sembrano semplici.
Shade, shadow.
La prima indica una luogo protetto, non illuminato. Oppure qualcosa che blocca la luce.
Può essere una connotazione cromatica, una sfumatura.
Ha anche valore di ricordo, reminiscenza.
Oppure è un fantasma.
La seconda é l'ombra comunemente intesa, proiettata per effetto della luce, oppure la parte oscura - non illuminata - di qualcosa, una stanza, un vicolo, una persona.
Sembrerebbe quindi che shadow appartenga per forza a qualcosa o a qualcuno.
Shade invece sta in piedi da sola.
Non meraviglia quindi che si diventi shade, e non si proietti più alcuna shadow. Ma che siano le shadows a fare più paura.
Forse il solo significato qui ad essere lasciato da parte della parola ombra, o shade / shadow, è quello quantitativo.
Ombra per noi va bene in entrambi i casi, e spesso si associa ad un'altra parola, riflesso. Quale funziona meglio pensando a The Dead?
Non presto mai molta attenzione alla mia ombra. Spero che non si offenda. Confido nel fatto che non si allontani mai da me. Se succedesse sarebbe un problema con cui più di un autore si è confrontato.
The Dead non parla di ombre, però. Parla di riflessi, al presente, e in senso lato parla di fantasmi.
Il riflesso, a ben guardare, può far agitare più dell'ombra. Se diamo a questa parola una collocazione negativa nell'archivio delle attribuzioni é solo perché richiama oscurità. Ma ciò non toglie che l'ombra sia quanto di più terreno la luce ci offra andando a sbattere sui nostri contorni.
L'ombra fa parte di noi. Inseparabile.
Il riflesso, luminoso, invece é esterno. Se dovessi scommettere sul tema del doppio darei il riflesso vincente sull'ombra, senza dubbio.
Nel gioco dello specchio si mimano i movimenti.
In The Dead la gestualità non è meno importante delle parole.
Ogni paragrafo si raccorda al successivo, si sente come un rintocco scandire il ritmo, una campanella che chiama in scena anche l'esercito delle vettovaglie, come nella parata della tavola imbandita.
La festa ricorrente, la tradizione che è sempre una promessa non mantenuta di immortalità, è il pretesto per uno sketch book sociale, familiare, raccolto, chiuso come una bomboniera, i cui caratteri vengono sbozzati però con mano molto ferma. Ma, per l'appunto, é una scusa.
In questo racconto del 1907, nota culminante dei Dubliners, raccolta edita solo nel 1914,
Joyce riesce in pochissime pagine a dar conto di un tema immutabile, come la transitorietà, attraverso particolari che si allargano fino a occupare tutta la superfice della lastra. Radiografica, e dello specchio, e non é la stessa cosa.
Nei passaggi per me più stratificati (sono due frasi, separate, a poca distanza) Gabriel Conroy viene messo a disagio per ben due volte dal proprio riflesso.
Vi é mai capitato di vedervi riflessi in uno specchio e di capire solo dopo esservi avvicinati che la figura intravista vi corrisponde? Oppure, di cogliere il vostro riflesso e di non riconoscervi, pur sapendo benissimo che siete voi? Lo specchio coglie sempre di sorpresa.
Gabriel é perplesso non solo riguardo a un riflesso nel quale non si riconosce. Lo é anche nei riguardi della propria perfezionata istruzione, che lo imbarazza nei rapporti con gli altri, lo è nei confronti di quello sforzo tremendo, quando non é un istinto, di far quadrare le proprie risposte alle domande del mondo circostante, anche se é un mondo piccolo, o una casa familiare, e può essere impersonato volta per volta da chiunque, come Lily, la figlia della portinaia, o da Miss Ivors, il bozzetto più vivido della serie.
Più oltre, Gabriel sente il maggiore trasporto affettivo e fisico nei confronti della moglie esattamente nell'attimo in cui lei non solo non gli appartiene affatto, ma è persa in ricordi - riflessi - che non lo riguardano.
I morti non si possono più seppellire, dopo la prima volta. Un ricordo può diventare invincibile, non importa se si riferisce a pochi giorni o a poche ore a fronte di decenni passati con un'altra persona. Gabriel non può far altro che cedere all'accettazione del ricordo, perché
"such a feeling must be love" , e poi cedere al sonno ascoltando la neve cadere,
[...] falling faintly through the universe and faintly falling [...] upon all the living and the dead.
...e la campanella suona.
Ho ascoltato la seconda metà di questo racconto lungo nel bellissimo programma di Radiorai 3 (che approfitto per segnalarvi, se non lo conoscete) "Cose che succedono di notte". Sono rimasta folgorata. Sono andata a cercare il libro nella mia libreria: certo, avevo già letto Gente di Dublino tanto tempo fa. Mi secca ammetterlo, non ricordavo assolutamente niente. Ero forse troppo giovane per capirli. (Invece ricordo alcune pagine di Dedalus, che mi colpirono). Insomma, rileggo il racconto intero e concordo con mille altri lettori: è perfetto.
Aggiungo che ho amato e venerato libri di tutte le lunghezze, anche lunghissimi come Cent’anni di solitudine, La valle dell’Eden e I fratelli Karamazov, ma quel senso di assoluta perfezione, laddove non cambieresti nemmeno una virgola, lo si trova secondo me solo nei racconti lunghi, la cosiddetta misura “centopagine”.