Raccolta di studi ciascuno dei quali si situa all’interno di un preciso contesto e dibattito culturale (talvolta con una terminologia “tecnica” specifica): filosofia del linguaggio, storia della filosofia, semiotica, critica letteraria ecc.
Quasi sempre, però, la lettura dei saggi è stimolante anche per il lettore non specialista e permette l’approfondimento di vari aspetti della cultura europea, dei meccanismi della comunicazione e del pensiero ecc.
Molti, e soggettivi, i percorsi possibili all'interno di una mole stratificata di pagine (575) e di sollecitazioni culturali, che vanno dalla classicità alla contemporaneità, ma che, come sempre in Eco, hanno il loro nucleo fondamentale nel Medioevo.
La metafora come conoscenza: un'idea aristotelica non praticata dai medievali, che preferirono praticare l'arte della metafora nell'interpretazione dei testi (e del mondo) ritenendo che quest'ultimo fosse già stato interamente concepito e scritto da Dio in chiave simbolica.
Il Medioevo crede che Dio abbia già creato il mondo come metafora, e che all'uomo rimanga l'incessante lavoro di interpretazione. In questo esso si distacca dal valore cognitivo della metafora aristotelica, così come emerge dalla "Poetica". La metafora ha valore ornamentale, non conoscitivo. Dio ha dato col mondo le sue metafore reali (in rebus) e all'uomo non resta che scoprire il linguaggio metaforico della creazione. Parlando di Dio, poi, nessuna metafora può dire la sua insondabile natura.
E delle metafore, la prima, la più intimamente connessa col tema della conoscenza è l'albero. L'albero della conoscenza , appunto, che ha un valore sia ontologico che poetico. Il Medioevo, procedendo nella divisione dell'essere per genere prossimo e differenza specifica, secondo l' "arbor porphirana", ramifica all'infinito fino al labirinto, che dell'albero è completamento e negazione estrema.
La metafora è parola e linguaggio, e su di essi il Medioevo non ha mancato di interrogarsi. Dante, che col "De vulgari eloquentia" scrisse il primo trattato sulla lingua, si chiede che cosa siano e da dove vengano la parola e il linguaggio. Dio per primo pronunciò il "fiat lux", ma se, come dice Platone nel Timeo, ripreso da San Tommaso, parlare è manifestare ad altri un contenuto della nostra mente, la parola che crea il mondo non è un atto comunicativo ma performativo, magico, per cui non si può certo dire che Dio parla.
Parlare è proprio solo dell'uomo (non degli angeli, nè degli animali, nè dei demoni) e sarebbe oltremodo sconveniente per un Dio.
A dire il vero, sempre nel Genesi, Dio dice ad Adamo di non mangiare del frutto dell'albero, stavolta con un inequivocabile atto comunicativo, ma Dante si salva in corner, dicendo che probabilmente non l'ha fatto verbalmente ma, come nel Salmo 148, con fenomeni atmosferici, colpi di tuono e lampi.
Dunque, il primo a parlare fu l'uomo, anzi la donna. E anche questo fu assai sconveniente. Non vale, infatti, che Adamo abbia dato il nome alle bestie: il primo colloquio fu quello tra Eva e il serpente. Ma sicuramente senza intenzione, il Genesi si dimentica di dire ciò che è implicito nella creazione di Adamo: che come un bimbo, quando nasce, emette un primo vagito di dolore, così il primo uomo quando fu plasmato non potè che chiamare per nome il proprio creatore, con chiara intenzione di omaggio e di giubilo. Fu così che la prima parola pronunciata dall'uomo, maschio e non femmina, fu "El", il nome di Dio nell'ebraico della creazione parlato da Adamo.
Ma che cos'era questo ebraico della creazione? Era la prima realizzazione di una lingua parlata prossima a quella lingua unica, quella Ur-lingua, che è all'origine di ogni idioma concreto. Babele l'ha dispersa, ma la sua essenza può essere recuperata nella distillazione di quel "volgare illustre" che mira a ricostituire, per virtù poetica, quella lingua perfetta. Dante (il poeta) nuovoAdamo, dunque.
In Paradiso XXVI è proprio Adamo a parlare: "Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia / I s'appellava in terra il Sommo Bene, / onde vien la letizia che mi fascia: / e EL si chiamò poi ...". C'era l'ebraico adamitico del Paradiso terrestre, nel quale Dio si chiamava I, e quello dopo la cacciata (e prima di Babele) in cui si chiamava EL. Come si spiega questa affermazione di Dante? Si spiega (e vi risparmio la ridda delle ipotesi e delle interpretazioni) ipotizzando, secondo Eco, una reciproca influenza di Dante e della tradizione cabbalistica ebraica medievale.