"Nell 'inferno lieve di questa contemporaneità, di questo presente incerto, la pena è quella di non essere più capaci di sentire la terra sotto i nostri piedi, di riconoscere la polvere che solleviamo ad ogni passo come parte di noi, quello che resterà di noi.
Tutto cambia troppo in fretta. È cambiato il mondo ed è cambiato più in vent 'anni che in quattro secoli. È cambiato il clima, il paesaggio. Sono cambiate le abitudini ed è cambiata la bellezza e l'immaginario della bellezza, il desiderio e l'immaginario del desiderio, per le donne e per gli uomini, per i potenti e per quelli che non contano niente. La vita si allunga e crescono i desideri. "
L'autore lo chiama romanzo, ma non lo è. Non c'è una storia da seguire, né personaggi che la animano. E non è neppure un saggio. Sono riflessioni su ciò che siamo oggi rispetto a venti-trent'anni fa, cosa ha cambiato il nostro modo di vivere, di percepire il tempo, di vivere i sentimenti, cosa è mutato nella nostra prospettiva nel guardare alle cose e alle persone.
Tre stelle e mezzo.
Finita di leggere l'ultima pagina del mio libro virtuale ho esclamato fra me e me "wow, che lettura!", e poi, subito dopo, mi sono posta la stessa domanda che mi avevano suscitato le primissime impressioni di lettura; e cioè: ma cosa ho letto? Un romanzo o un memoir (già iniziandone la lettura avevo riflettuto sul fatto che ultimamente sembra che gli autori non siano più capaci di inventare storie), un prodotto di autofiction, o... oppure tutto questo insieme?
Resta il fatto, in ogni caso, che "Niente di personale" per me sia stata una lettura rivelatoria - della vastità del sapere di Roberto Cotroneo, in primis, del quale avevo letto due romanzi (Otranto e Questo amore, che mi erano piaciuti entrambi, sia pure in maniera e per motivi molto diversi fra loro), che avevo colpevolmente sottovalutato - e del suo ruolo da protagonista, sia pure da dietro le quinte, di quell'élite culturale della Prima Repubblica di cui, tra le altre cose, con nostalgia e un senso di sgomento misto a melancolia, racconta in questo libro.
Ecco, non sapevo nulla di lui, dei quasi vent'anni trascorsi fra le pagine culturali dell'Espresso (di cui almeno dieci a dirigerle), delle sue schive origini piemontesi che si contrappongono con stupefacente innaturalezza alle ore trascorse nei salotti romani (a lungo frequentati per incontrare i protagonisti del mondo della cultura di quegli anni), alle telefonate all'alba di Moravia, ai pranzi con Fellini, ai consigli di Piero Ottone o a quelli di Claudio Rinaldi e Giampaolo Pansa, e nemmeno dei suoi trascorsi televisivi o alla radio: io lo leggevo, l'ho letto, ma di lui non sapevo nulla, pensavo solo fosse un autore più che dignitoso sbucato fuori un po' dal mercato editoriale, senza un background, o almeno non di questo livello. Un po' di più, invece, so da qualche anno dei suoi magnifici progetti fotografici - Genius Loci e Forme del silenzio, entrambi confluiti in libri fotografici e mostre (il primo alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea nel 2017, che naturalmente mi sono persa) - della sua grande sensibilità per i chiaroscuri che quotidianamente ci circondano, per i colori vivi, per tutto quello che le persone esprimono quando sono davanti a un'opera d'Arte o comprese nei propri pensieri.
Mi ha lasciata stupefatta, questa lettura, mi è sembrato di essere presa per mano da una persona venuta da un'altra epoca, dotata di una cultura di almeno due spanne superiore a tutte le cose contemporanee che mi è capitato di leggere negli ultimi anni (italiani, senza dubbio), che si aggira come un superstite fra i resti di quello che fu e non è più, come cieca, e di essere guidata fra le rovine di un passato, appena alle spalle, fra i resti e le vestigia nemmeno troppo antiche di quello che eravamo, dell'enorme ricchezza intellettuale che avevamo e abbiamo invece disperso, dilapidato, mancato di riconoscere.
E mi è venuto da pensare all'articolo di qualche tempo fa di Alessandro Baricco
http://thecatcher.it/elite-game-baricco-91303a9ff352
quello sulle élite e sul fatto che oggi non si voglia più riconoscerne alcuna di élite: culturale o professionale che sia, che non si sia più disposti a dare credibilità a nessuno (mi riferisco alla società di massa, alla sostituzione avvenuta delle competenze, alla negazione delle stesse da parte del mondo della Facebook University, così come la chiama un mio amico d'infanzia, o della gran parte del corpo elettorale), al famoso "uno vale uno" che oggi più che mai in molti sembra siano disposti ad applicare a tutti i campi dello scibile umano, da quello scientifico, a quello artistico, a quello letterario. E invece no, lo sappiamo, non è e non può essere così, e se anche talvolta Cotroneo può sembrare rimpiangere i "tempi andati" perché con essi sono andati via anche tanti privilegi di cui il mondo della cultura beneficiava nel frequentare certi salotti, riesco a lo stesso a percepire la sua tristezza, la sensazione di aver visto passare davanti a sé un'epoca, e rappresentanti di quell'epoca, scomparsi così come è scomparsa Atlantide, o piuttosto come è affondato il Titanic, senza che nessuno ne abbia saputo o potuto ereditare il ruolo, abbia avuto il talento, la capacità di colmare il vuoto, la voragine che si è aperta.
Cos’è accaduto, perché tutto è andato perduto?
Uno scrittore che ha lavorato a lungo nel mondo dei giornali e della cultura si accorge d’un tratto, come per una strana epifania, di essere stato negli ultimi trent’anni il testimone di un tempo ormai perduto. Perché è scomparso il mondo di Moravia e Calvino, di Fellini e Sciascia? E il grande giornalismo, e l’anima delle case editrici? Decide quindi di ricostruire il motivo per cui tutto questo è accaduto. Attraverso una scrittura densa e il confronto con personaggi un tempo importanti e oggi quasi ai margini del mondo culturale prova a raccontare la fine di un’epoca. Tutto avviene in una Roma rarefatta e logora, che assiste indifferente al mutare delle cose. Così un universo sfuggente eppure nitido torna a vivere negli occhi e nel ricordo del protagonista […] - così scrive nel suo commento (molto bello e dettagliato, e che invito a leggere) Boris Limpopo su GR.
Un romanzo che è quasi un memoir, allora, che è quasi un saggio, che è quasi autofiction, un libro sul suo sgomento verso questo mondo (che poi e anche il mio), perché se è vero che non è niente di personale è vero anche il suo stato contrario, proprio come davanti a uno specchio.
“Quando è avvenuto il passaggio? In quale momento di questi trent'anni è accaduto che non si potesse più tornare indietro? È accaduto quando si è perso il senso del pudore intellettuale, il senso del privato, la capacità di proteggere sentimenti e identità per assumere identità sovrapposte, senza un centro. È stato questo, e non altro, a metterci in crisi: la perdita dei nostri confini interiori. È accaduto quando abbiamo smarrito la parola, quando si sono replicati stilemi e luoghi comuni. E non dico i luoghi comuni banali, parlo di altro: parlo di luoghi comuni intelligenti, luoghi comuni abitati da persone che avrebbero dovuto indagare il mondo cercando un linguaggio che sapesse rappresentarlto, parlo gli autori di romanzi che avrebbero dovuto raccontarci il nostro smarrimento e dirci come fare a capire, attraverso quali sentieri trovare i segni del futuro.
[..]
È stata colpa nostra, è stata l’invenzione di un linguaggio emozionale a cambiare tutto: a fare i deserti tutti uguali, a fare gli amori tutti uguali, persino il sesso identico nei modi, nelle tecniche, negli immaginari.
[…]
“È stata colpa nostra.”
Sì, è stata colpa nostra. Colpa dei silenzi e dell’indifferenza, che è una forma, una variante della stanchezza.
“E poi”, cito ancora Boris Limpopo, “il vertiginoso esercizio di stile sulle frasi fatte (forse abusato, ma sempre efficace)” (che a me ha ricordato l’analogo esercizio fatto da Luciano Bianciardi ne La vita agra con i frammenti delle opere da lui tradotte):
Sono il sentire, l’emozione, la passione, l’intensità, la felicità, il vicino e lontano, il centro delle cose e la periferia, lo sguardo verso, l’indicibile, la sofferenza, l’amore, l’attesa, la scrittura, il tempo (nelle variante del tempo lento, del darsi tempo), la distanza, la visione, la trama dell’essere, il destino (i destini, al plurale quando tendono a incrociarsi), il respiro (ritrovarlo quel respiro, ma anche il respiro del tempo), la prospettiva (che è sempre un’altra, che è alle volte capovolta), l’accadimento (che è fato sommato al quotidiano, le cose accadono, ma quando è un accadimento è molto di più), i lampi improvvisi (che sono degli accadimenti spot), i silenzi (che naturalmente rivelano), il disordine (che è creativo), l’ordine (che non è autoritario, o totalitario, ma è metodo, è Feng shui), la forza oscura dell’universo, il pudore, l’intermittenza, le collezioni di attimi, la grammatica della fantasia (Gianni Rodari), il corpo, la scrittura sul corpo, il corpo della scrittura, l’attrazione, le ferite (che quasi mai si rimarginano e restano come un monito), le cicatrici, lo stillicidio, la voce, il cielo quando cambia e diventa presagio, e naturalmente il presagio, la maieutica, il trasmettere, la sensazione, le radici (quelle buone, quelle corrette), il cuore, le chiavi del cuore, il pane quotidiano, una piccola rivoluzione, e il vale la pena di ricordarlo, le piccole rivoluzioni, il senso, la ricerca di un senso (Greimas e Vasco Rossi), il preconfezionato (soprattutto le verità), il sorriso (basta il sorriso), il sorriso enigmatico (Leonardo da Vinci), il sorriso ignoto (Antonello da Messina), la luce sopra ogni cosa, il disagio, ai limiti, la platea del mondo, i simboli, simboli della rivolta, simboli del disagio, simboli della coerenza, simboli della determinazione (e coerenza, determinazione, rivolta), la scelta, l’innamorarsi di tutto, il ricostruire (ogni giorno), la tenacia, il carattere, la grandezza della sconfitta, i traghettatori, la storia impossibile, l’enigma, l’assenza (che è più acuta della presenza), la presenza (che è attenzione), l’incessante (che spesso è un lavoro), i cattivi pensieri (che non vanno dominati ma compresi), i no che aiutano a crescere, le sintonie, la pancia (la pancia dell’America, quasi sempre, ma non solo), le parole smozzicate, l’amore quando bussa alla tua porta, lo spaesamento, le ossessioni, la sfida, il corpo a corpo, gli errori, i begli errori come le belle bandiere, e poi fuori è primavera, la chiave (trovare la chiave, anche la chiave di volta), lo svanire, il rivelare, il disincanto, l’affacciarsi (a tutto, alla vita, alle possibilità), la propria strada (il proprio cammino), l’inquietudine, l’album dei ricordi, l’inesorabile (il susseguirsi inesorabile), il confine sottile, il discrimine, lo scampolo (di attenzione, di amore, di bontà), l’improbabile, l’indispensabile, il bastare a se stessi, i conti con il mondo, la diversità, i parallelismi, il tenere assieme.
[…]
Amiamo le rovine perché sono lontane, le tombe etrusche ci affascinano perché i morti sono talmente distanti da millenni da non restituirci più nulla di doloroso. Ma ora abbiamo rovine dell’altro ieri che paiono rovine di secoli: e non è davvero possibile pensare di restaurare, di ricostruire, di riportare a quel che era.*
*(e qui, chiaramente, avendo curato l'edizione del volume a lui dedicato nei Meridiani, l'omaggio è a Giorgio Bassani e a Il Giardino dei Finzi-Contini)
Questo di Roberto Cotroneo è un saggio sulla società contemporanea travestito da romanzo.
Non me l'avessero regalato, non lo avrei mai letto ed avrei fatto male perchè è stata una lettura notevole. Mi sono proprio divertita!
Il protagonista gironzola per Roma un po' come il Jep Gambardella della Grande Bellezza, con uno sguardo lucido, disincantato, ma senza quell'amara critica che verrebbe facile, per come stiamo messi oggi.
Il protagonista, che poi sarebbe lo stesso autore, perchè sembrerebbe essere un romanzo autobiografico (ma sarà poi vero?), incontra personaggi e personalità che interroga sulle possibili ragioni di questa involuzione socio culturale. Dei più cela la vera identità, ma sparpaglia indizi e cercare di risalire a chi fossero davvero è stato proprio divertente: un giallo, nel romanzo, nel saggio.
Ecco un libro con della sostanza.
Certo leggerò presto anche l'ennesimo romanzetto ruffiano di Marco Missiroli, confezionato per vincere il Premio Strega, ma quale epocale dislivello tra i due.
Il confronto rispecchia quel che eravamo e quel che siamo oggi.