L'estate, il caldo, le vacanze “chiamano” il giallo, la suspense, il crimine, forse nella speranza che possano mitigare la calura o, più semplicemente, certe letture sono adatte a qualsiasi stagione. In queste settimane ho letto le vostre recensioni, che sembrano confermare Simenon come scrittore più gettonato, incalzato da un Dard che sembra costituirne un valido diversivo. Non me ne vogliate, ma io resto fedele alla mia “Signora della Suspence”, anche se ciò mi pone inevitabilmente in minoranza.
3° di 5
Arrivati al terzo capitolo della saga di Tom Ripley, la Highsmith deve aver avuto dei bei grattacapi. Dopo il primo, a detta di molti il più riuscito (ma per stilare la mia classifica personale attendo di averli letti tutti e 5) e il secondo volume (a me Sepolto vivo è piaciuto, ma non si può dire che sia un granché, come thriller) era necessario convincere i lettori che valesse la pena proseguire le vicende di un personaggio così particolare e fuori dall'ordinario come Tom Ripley... non saprei davvero come definire questo soggetto, ambiguo e bifronte, un'amante della pittura e del lusso con il vizietto del crimine: un "dandy del crimine"?
L'Amico Americano rimette in gioco alcuni degli ingredienti presenti nel romanzo d'esordio della Highsmith, quel Strangers on a Train che diventò di filato un campione di incassi firmato Alfred Hitchcock e fu un importante lasciapassare nella carriera della giallista. Ci sono sia il treno sia quella straordinaria idea della persona normalissima (il nostro vicino di casa? Noi stessi?) che, per una serie di sinistre circostanze, si trova ad essere trasformato in un killer a pagamento. Ingredienti collaudati per una ricetta sufficientemente rinnovata rispetto al capostipite.
Dolenti note
Caviamoci subito il dente: il difetto maggiore di questo romanzo è costituito dalle motivazione per cui un normale padre di famiglia si trova assoldato per compiere delitti. Per quanto la scrittrice ci si impegni in tutti i modi, tornando più volte sull'argomento, la sua è una spiegazione poco verosimile e che non convince. La realtà ci informa che si può diventare criminali per disperazione, oppure per indigenza, o per altri motivi “attenuanti”, ma è risaputo che un'organizzazione criminale tentacolare non affiderebbe mai il ruolo di killer ad un absolute beginner, non foss'altro che per la bassissima percentuale che un dilettante riesca a portare a termine la missione con successo.
La zampata di Patricia
Una volta fallito ogni tentativo di dare alla vicenda un contesto plausibile, cosa impedisce al lettore di abbandonare la lettura? Perché, mi chiedevo, nonostante quanto stia leggendo faccia acqua da tutte le parti, non riesco a smettere di leggere? Perché questa storia mi prende così tanto? La risposta è che la Highsmith, in uno dei suoi romanzi più ricchi di azione, ci cala in una situazione tipica dei sogni. Nel sogno, non sappiamo perché siamo diventati dei killer al soldo della malavita, semplicemente ci troviamo costretti a portare a compimento l'omicidio senza essere scoperti o, peggio ancora, senza diventare noi le vittime. Come si trova scritto nel libro: "Le tragedie greche hanno spiegazioni per ogni cosa".
Per quanto mi riguarda, questo doppio salto mortale è riuscito (seppur con qualche scivolone), la saga di Ripley approda ad uno dei suoi capitoli più memorabili che si legge con la salivazione azzerata, dovendosi ricordare di respirare, di tanto in tanto. Questa volta il talentuoso Mr Ripley fa un passo di lato per permetterci di far conoscenza con uno dei personaggi più riusciti e più indimenticabili della folle galleria di personaggi creati da PH: il timido, riservato, corniciaio di provincia chiamato Jonathan Trevanny.
Su questa edizione
La Nave di Teseo ripubblica i libri di PH in una “nuova” edizione a prezzo niente affatto economico, utilizzando le solite traduzioni Bompiani senza neanche il buon garbo di una rilettura. Si trovano diversi errori e termini che andrebbero adeguati all'italiano corrente (baguette tradotto come 'bastone' fa pensare ad un panettiere che rifila il pane del giorno prima).
Leggere libri usati è un’azione ecologicamente sostenibile. 🌱
Ripley è l'eroe negativo per il quale inevitabilmente si parteggia. La filosofia (perversa ma realistica) della Highsmith è che il crimine paga e uno come Ripley, psicologicamente complesso, svantaggiato in origine (orfano e povero) ma intelligente, di natura pericolosamente ambigua, intellettuale autodidatta, estimatore d'arte ed esteta, uno come Ripley, insomma, DEVE farcela.
Quando facciamo la sua conoscenza, in "Il talento di Mr Ripley" ne scopriamo le potenzialità e siamo indubbiamente sorpresi della sua scriteriata propensione al rischio. Sia pure sul filo del rasoio il nostro Tom se la cava e tutto sommato ne siamo lieti, sopportando stupiti l'immoralismo di cui ci dimostriamo capaci. Ma, pensiamo (per rassicurarci), si tratta pur sempre di eroi di carta, suvvia!
Nel secondo episodio della serie, però, il giovane Tom Ripley ha già perso quell'attrattiva dovuta alla miscela esplodente costituita da volontà di riscatto, abilità naturale a fingersi altri, improvvisazione geniale e adrenalina postpuberale.
Insomma Ripley è una vecchia volpe ormai, il cui fascino è drasticamente defunto.
Tom Ripley, ovvero l'evoluzione di un assassino.
Chi, come me, ha imparato a conoscere Ripley attraverso il libro ("Il talento di Mr. Ripley") che apre la serie a lui dedicata (è lui il fil rouge che lega i cinque romanzi della saga, lui, un uomo comune che diventa straordinario, nella scaltrezza e nell'ingegno, attivando automaticamente quei sistemi di difesa dei quali siamo tutti provvisti), faticherà a riconoscere, in questo Ripley, lo stesso uomo.
Innanzittutto non è più lui il centro del racconto, anzi, sembra vi entri quasi accidentalmente (benché finisca poi per prendersi il suo spazio: è troppo interessante per essere relegato in un angolo, senza contare che, a differenza della storia di Trevanny, la sua avrà un seguito), per uno spirito di solidarietà che fatichiamo a capire (dal momento che non dovrebbe, a rigor di logica, appartenere ad un personaggio dalla psicologia sostanzialmente egocentrica); non è più il ragazzo avventato e scaltro che scappava, esattamente come una bestia braccata, dai rappresentanti della giustizia umana (quel Ripley là, benché ci repellesse, arrivavamo a comprenderlo, anche se soltanto superficialmente), bensì un borghese con una ricca villa a Fontainebleu ed una bella moglie francese un po' svampita.
A cambiare, da un libro all'altro, sono soprattutto le ragioni dell'omicidio: a spingerlo ad uccidere (con il significato dell'assassinio che travalica la mera questione morale, allargandosi alla sfera sociale: per Ripley tornare ad uccidere significa rimettere in discussione la posizione raggiunta, riportare l'attenzione su di sé e sui misfatti da lui compiuti in passato, con il rischio di compromettere la propria posizione economica nonché le proprie relazioni affettive), questa volta, non è il richiamo del sangue (quel meccanismo che la Highsmith aveva saputo spiegare tanto bene nel suo romanzo d'esordio, "Sconosciuti in treno": l'assassinio porta gli esseri umani a cambiare radicalmente la propria prospettiva sul mondo), o almeno non soltanto quello, bensì il desiderio di essere d'aiuto ad un altro uomo (ingaggiato da un compare di Ripley per uccidere un paio di uomini della mafia).
E' quest'uomo (Jonathan Trevanny) il vero centro del romanzo: malato di una grave forma di leucemia (che gli lascia ben poche speranze di vita) accetta di diventare un assassino per poter guadagnare dei soldi con i quali garantire una qualche stabilità economica alla moglie ed al figlioletto (a spingerlo verso quella terribile decisione, l'interesse, legittimo, la paura, l'indifferenza; e lo capiamo anche se l'analisi psicologica è meno raffinata che in altre opere dell'autrice americana).
Vediamo, quindi, Ripley, il maestro, offrirsi di "insegnare" l'arte dell'omicidio a Trevanny, il neofita.
Due, per parafrasare un film con Gabin e Delon, contro una terribile organizzazione criminale; due privati cittadini che, improvvisatisi giustizieri (perché, come essi stessi dicono più volte nel corso del romanzo, a morire non sono esseri umani, ma mafiosi), finiscono per diventare amici, quasi fratelli.
Il romanzo non è male, benché non all'altezza degli altri della Highsmith che ho letto. C'è, forse, fin troppa azione (sparatorie in casa, furiosi corpo a corpo), il che ruba spazio ai personaggi ed alla loro interiorità.