Il libro mi ha agganciata subito: "La prima volta che vidi una montagna avevo 16 anni".
L'uomo che per primo raggiunge la cima dell'Everest (Mallory e Irvine rimangono un'incognita) vede la neve per la prima volta a 16 anni, poi quasi se ne dimentica e da ragazzo coltiva la sua passione.
Bum! Attacco perfetto.
Dopo il libro di Firstbrook e quello di Krakauer, le aspettative erano alte.
Finalmente il memoir di chi vede la cima per la prima volta. Quanta fatica! Quante emozioni! Che esperienza da raccontare!
E invece no.
Questo è un libro senza anima.
Si potrebbe pensare che leggere il resoconto di Hillary sulla sua scalata dell'Everest sia avvincente e affascinante. Pagine e pagine di descrizioni di come arrivare a destinazione attraverso fiumi impetuosi e poi descrizioni infinite di ghiaccio e crepacci. Descrizioni che ben presto non sono riuscite a suscitare il mio interesse perché prive di anima. Infine la scalata del 1953, dove l'obiettivo è la vetta. E dopo un'esauriente (ed estenuante) descrizione di tutti i crepacci e le seraccate possibili, le spiegazioni sul funzionamento dei respiratori, Hillary e Tenzing raggiungono il Colle Sud e il libro ritrova il suo cuore. Improvvisamente si torna a parlare delle persone, della paura, della fatica, dello sgomento, dell'euforia e il libro torna a essere interessante. Purtroppo è troppo tardi per renderlo piacevole.
Dove sono le riflessioni più profonde di sir Edmund Hillary? Possibile che non abbia mai rivolto il pensiero agli affetti lasciati a casa?
Decisamente inferiore ai due letti precedentemente, ma poiché sono nel "mood" Everest, leggerò ora quello di Bukreev.