In quest'epoca di hypercomunicazione imperante, il termine storytelling ha preso il sopravvento. Tutto è storytelling: una pubblicità, un gossip, un evento. Eppure, la sensazione che si ha, e che manchi un filo capace di accordare in linea retta eventi pianificati dai più abili uffici di marketing, magari locati a Milano, o a Ladispoli, per sembrare più hipster.
Ecco quest'abbondanza di "narrazioni" sembra voler celare una grande assenza, ossia un vuoto di narratori.
Questa premessa per dire che un narratore, e anche enorme, ce lo abbiamo, proprio in Italia, e il suo nome è Gianluca Morozzi. Sì, perché Morozzi è un grande narratore, un narratore che non si vergogna di prendere in prestito aneddoti narrativi fin-de-siécle, se questi sono utili alla trama. Ah, la trama, questa grande assente degli ultimi anni di letteratura italiana!
Certo, si può obiettare che la sua sia una narrazione di genere, ma la risposta è semplice: e sti cazzi? Il genere è un problema che si fa più il mercato editoriale, che il lettore, il quale ha fame di narrazioni, non di considerazioni di mercato - per lo più, tra l'altro, spesso errate.
Ironia e violenza, citazioni a iosa, dialoghi brillanti e narrazione di alto livello: Morozzi ci regala un romanzo divertente e terribile, con uno stile che mi ricorda il grande Quentin Tarantino. La capacità di scrittura di Morozzi mi colpisce sempre: non importa se indovini l'assassino, non importa se risolvi gli enigmi prima della conclusione, quel che conta è la storia che ti prende e ti porta via, ti diverte, ti emoziona e ti regala grandi soddisfazioni. I romanzi di Morozzi sono sempre tra i miei preferiti. Grazie al talento unico di questo scrittore poliedrico.