Joy Williams è un'autrice coi fiocchi. La sua scrittura è la crasi del dopoguerra americano, perché unisce minimalismo e postmoderno, generando uno stile ampio e asciutto. I racconti de L'ospite d'onore permettono proprio di incontrare questa voce ancora poco famosa in Italia. Se quindi è una lettura ottima per chi vuole avere un excursus della Williams - i racconti coprono un arco temporale di quarant'anni - ha purtroppo il limite della disomogeneità, della mancanza di un filo che unisca la scelta dei testi.
Quarantasei racconti sono tanti, soprattutto se coprono una carriera lunga come quella di Joy Williams, che va dal 1966 ("Un'altra stagione") al 2015 ("Il guardiano del ponte"). Il rischio nel fare una raccolta simile è quello di stuccare il lettore, se non proprio annoiandolo, soprattutto perché comunque, volente o nolente, le ossessioni di uno scrittore sono sempre quelle e ritornano bene o male, appunto, ossessivamente. Temi come il lutto, la solitudine, il prendersi cura l'uno dell'altro, sono temi su cui Williams torna per tutti e 50 gli anni della sua scrittura. Eppure, non si viene mai presi da una sensazione di noia. Tutt'altro. I racconti sono così densi, lavorano a un livello così profondo, che leggendo quest'antologia è necessario fermarsi più volte, staccare, per poter assorbire con più calma la potenza della sua scrittura.
Mi spiego un attimo meglio su 'sta cosa, che è forse l'aspetto più peculiare (e bello) dei racconti. Il racconto di Williams è privo di una vera e propria struttura, spesso. Manca, cioè, un inizio, uno svolgimento, una fine. Si inizia spesso in media res e altrettanto spesso ci si conclude. Ma anziché dare un'impressione di incompiuto, il risultato è duplice: innanzitutto comunque si riesce a creare una specie di microcosmo autosufficiente, che, proprio perché non ha inizio o fine, riesce ad avere una forza propria, celando ogni artificio narrativo; e poi, il suo essere un oggetto così apparentemente strano, invita il lettore a guardare sotto la superficie della storia. Sia chiaro: non intendo a cercare un significato, un messaggio, intendo a guardare dentro le persone che si muovono, nelle loro fisime, nelle loro contraddizioni. E non è soltanto una sfida da autrice a lettore, tutt'altro: è una vera e propria sfida morale.
Molti dei racconti si basano proprio sull'incapacità dei personaggi di riuscire a entrare in contatto con l'altro, sia la madre, la moglie, un amico. Ognuno è chiuso nel proprio bozzolo. E non è che lo faccia perché stronzo, cioè, sì, magari anche per quello, ma soprattutto per l'enorme terrore che prova nell'entrare in contatto con qualcuno, nella fragilità intrinseca che significa entrare in contatto con qualcuno. Non è un caso che il primo racconto della raccolta sia proprio "Riguardati" (e che i personaggi ritornino nell'ultimo, "Bromeliacee"): "L'amore di Jones è fin troppo evidente e tende a essere ignorato. Jones è come un animale del circo che, per via di una qualche anomalia genetica, ha un organo vitale al di fuori del corpo, un qualcosa di scomodo e spiacevole ce non dovrebbe essere visto, o per lo meno che non dovrebbe essere visto all'opera". Ecco, l'amore verso l'altro, il prendersi cura dell'altro, è quest'organo, questa delicatezza. Tutto il primo (e l'ultimo) racconto è una sorta di boccata d'aria prima della cupezza di tutto quello che passerà in mezzo. Il pastore e sua moglie sono due dei pochi personaggi dell'antologia a riuscire a provare quella grazia che, se fossimo capaci a trovarla, pervade il mondo.
Non che sia tutta colpa dei personaggi, sia chiaro. Il fatto è che la vita è già piuttosto dura di sua. Il titolo stesso dell'antologia, "L'ospite d'onore", si rifà a un'antica usanza giapponese (non so quanto vera, non importa) in cui un cucciolo d'orso veniva allevato e coccolato, finché a un certo punto, da adulto, lo torturavano e lo squoiavano vivo. Una roba atroce. La bambina, protagonista del racconto insieme alla madre malata terminale, paragona il vivere a essere quell'orso. E, per carità, è verissimo. Williams restituisce tutta la durezza della vita, in particolare la difficoltà di superare il lutto, l'incapacità di affrontare la morte, l'alcolismo. Ma anche le piccole tragedie quotidiane, come l'adolescenza o la solitudine. Perché se è vero che la vita è profondamente intrisa di grazia ("Eppure talvolta concludeva dicendo che, a dispetto del loro dolore sgraziato e di tutti gli anni di smarrimento e confusione che ancora la aspettavano, la Terra era un bel posto"), è anche vero che è quasi al limite del miracolo riuscire a vederlo (forse non a caso il protagonista di "Riguardati" è un pastore, e la raccolta si apre con una citazione delle Lettere ai Corinzi). L'unico modo che abbiamo per riuscire a vedere un briciolo di questa bellezza, di questa salvezza, è amare l'altro, prenderci cura veramente dell'altro. Al di là di ogni remora. Proprio come quell'organo orrendamente esposto.
Però. Però Williams non scrive il moralismo da quattro soldi. E' consapevole di quanto possa essere difficile prendersi cura veramente dell'altro per un semplice fatto: l'altro è uno stronzo, l'altro è tanto terrorizzato da affidarsi nelle mani dell'altro quanto ne ha il disperato bisogno. E' una lotta continua e struggente, fra il bisogno di essere amati e il terrore di essere amati: essere amati significa dare in mano all'altro il nostro organo, permettergli di farci male. Come potremmo non esserne terrorizzati? E qui sta il secondo racconto del dittico "Riguardati"-"Brominacee", il primo dedicato al marito, il secondo alla moglie, malata. E' lei che riesce ad abbandonarsi, a lasciarsi a andare e a permettere all'altro, al marito, di prendersi cura di lei.
Tornando al discorso del racconto in sé, ecco quindi che il guardare il racconto sotto la superficie assume un fattore morale fondamentale: il lettore è come se compisse esercizi di allenamento per riuscire a entrare in contatto con l'altro. Con la madre che sta morendo, con la moglie che se ne è andata. E, sia chiaro: entrare in contatto non significa capire cosa muove l'altro. In un racconto, "Sostanza", un ragazzo si suicida e lascia varia roba ai suoi amici, e nessuno riesce a capire il perché gli sia capitata roba simile in testamento. Alcuni se ne liberano, chi più chi meno velocemente. L'unica a rimanere testardamente attaccata al proprio, è una ragazza con un cane. Ora. L'incapacità di capire il perché dei gesti è così profonda che non solo non si capisce il perché del tipo, ma nemmeno il perché la ragazza sia così attaccata al cane, si possono fare solo delle ipotesi. Ma le ipotesi non sono importanti. Il perché non è importante. Non si deve capire l'altro per amarlo. Qua sta l'enorme sfida di Williams: ci si deve prendere cura dell'altro a prescindere. Ci si deve lasciar prendere cura dall'altro a prescindere. Quello che chiede Williams è un vero e proprio atto di fede. E non verso Dio, verso Dio in fondo sarebbe semplice. Ma verso l'uomo.
Il racconto «Antidolorifico» chiude con un dialogo tra la protagonista, una figlia diabetica che vive con la madre in Arizona, e lo psichiatra che le chiede: «Sei una ragazza sveglia, perciò dimmi, che cosa preferisci, il mondo manifesto o quello non manifesto?». Lei rintraccia quella parola sul dizionario e poi risponde con certezza: «Quello manifesto». La materia di Joy Williams è appunto questo mondo, la condizione umana e come si manifesta, un progetto zeppo di beni materiali, comportamenti autodistruttivi, menzogne protettive. In «L’amante» c’è L’uomo dalle Mille Risposte che dice: «ciascun lembo di terra ha il suo male. Prima o poi qualcosa che ci sta sopra finisce per soffrire». Ogni realtà domestica nasconde delle insidie e nei 46 racconti scelti di «L’ospite d’onore» Joy Williams soppesa il realismo con ciò che manifesto non è, rivelandoci la natura intima di un solo mondo – il nostro - oscillante tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è scrivibile e ciò che è solamente appena immaginabile. All’editore indipendente Black Coffee va il grande merito di avere portato in Italia questa immensa scrittrice da noi ancora quasi sconosciuta, definita da DeLillo «la quintessenza del classico racconto americano».
— Ester Armanino su «TuttoLibri La Stampa».