(Questa recensione è apparsa su FuoriPosto il 9 novembre 2018)

Negli ultimi tempi assistiamo inermi ad un fenomeno che vede sempre più persone, spinte dalla presenza di un clima d’odio ostile e irrespirabile, ad abbandonare o chiudere i propri account sui social network. In un contesto quanto mai attuale quindi, col suo nuovo romanzo L’alfabeto di fuoco (Edizioni Black Coffee), Ben Marcus sembra porsi una domanda: è ancora possibile salvarsi dalla comunicazione tossica?

Per rispondere a questa domanda, Marcus noto per i suoi precedenti lavori Notable American Women e in Italia con L’età del fil di ferro e dello spago (Alet), sfrutta come pretesto letterario un’America apocalittica dalle ore contate e sull’orlo di una crisi di nervi.

La vicenda al centro di L’alfabeto di fuoco vede protagonisti Sam e Claire, giovani genitori alle prese con Esther, figlia adolescente affetta da una patologia insolita e che inizialmente sembra condividere solo con i bambini della sua zona. Esther, come tutti i suoi coetanei, attraverso le sue parole e i suoi discorsi produce un effetto tossico quasi letale sugli adulti e su tutte quelle persone che le gravitano attorno.
Sam si renderà conto che nonostante gli sforzi per salvaguardare la famiglia, le parole di sua figlia diverranno sempre più nocive per lui ed in particolare per sua moglie Claire, ridotta oramai in fin di vita dall’aggravarsi della sua condizione.

Sarà proprio a partire da un’esposizione che raggiungerà livelli estremi che Sam si ritroverà da solo ed a combattere contro ogni avversità per il bene della sua famiglia, alla ricerca di un antidoto e di una soluzione, in cui sarà costretto a scegliere se abbandonare o meno Esther prima che la sua tossicità possa risultare letale per tutti.

L’alfabeto di fuoco è un libro sorretto da uno stile asciutto e ricercato, che gioca con più generi alternandosi tra il distopico, l’horror e il thriller. È un’opera che ci fa riflettere sui rapporti e sulle dinamiche che la comunicazione può avere all’interno di una famiglia, e più in generale sul significato dell’essere genitori.

Ben Marcus, osannato da scrittori celebri come Jonathan Lethem e Michael Chabon, e considerato alla stregua tra i più talentuosi autori contemporanei, in quest’opera riesce davvero a creare nel lettore tutte quelle turbe che sembrano appartenere alla nostra generazione, tra cui quel senso d’impotenza di fronte ad un’impossibilità comunicativa alienante, e lo fa con assoluta maestria.

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Aug 26, 2019, 4:57 PM

"L'alfabeto di fuoco" ha un pregio enorme e che basterebbe già solo quello a giustificarne la lettura: fa rendere conto di quanto ci sia alieno, ma al contempo intimo, il linguaggio.

Praticamente: a una certa il linguaggio diventa tossico. Sentire la voce dell'altro, inizialmente i bambini (ebrei), poi chiunque altro, ti prosciuga la vita, fino a lasciarti morto e rinseccolito. Ora, Marcus struttura "L'alfabeto di fuoco" sul linguaggio e sul fatto che, nonostante sia una nostra estensione, sia anche una cosa che ci é praticamente inconoscibile. Chomsky e compagnia a parte, se ci pensiamo bene, il linguaggio ci risulta una cosa piuttosto strana. Cioé. Per quale folle motivo se io dico una cosa, voi dovreste capirla? Cioé, insomma: perché dovremmo riuscire a comunicare l'uno con l'altro? O meglio, perché ci dovrebbe essere permesso? "L'alfabeto di fuoco" parte proprio togliendo questo permesso, rendendo il linguaggio, la comunicazione, veleno. Ma già prima che diventi tossico, il linguaggio non é una cosa pacifica. Tanto che viene definito "un'arma coniugale primaria", ed é la lingua non letale, eh.
Attorno al linguaggio, inoltre, si creano diverse scuole, diverse filosofie. Marcus ne evidenzia due, fondamentalmente, che sono un po' una l'opposta dell'altra. Da una parte ci sta LeBov, uno per cui il linguaggio é una bugia costante, una falsificazione, una manipolazione dell'altro - ogni relazione, in fondo, per lui lo é. D'altronde, Marcus lega indissolubilmente linguaggio, relazione e realtà. Non a caso LeBov ha identità multiple, sia nel senso che si finge più persone, sia che piú persone sono LeBov. Per LeBov il linguaggio é lo strumento con cui esercitare il potere sugli altri. Così quando viene meno, non si fa molti scrupoli a seviziare dei ragazzini per riacquistarlo e quindi. E quindi boh, in effetti, Marcus non specifica mai quale siano le sue intenzioni, ma in fondo non importa, e anzi fa sí che LeBov diventi ancora più simbolo di quelli che usano il linguaggio per manipolare, per avere potere sull'altro. Che cioé, vorrei sia chiaro: é una cosa che il linguaggio ha in sé - d'altronde i ragazzini ammazzano parlando.
Se LeBov é il nichilismo, Burke, rabbino di una branca (meravigliosa) dell'ebraismo (totalmente inventata da Marcus, in uno dei momenti più alti del romanzo), vede nel linguaggio "varianti del nome di Dio". "Qualunque cosa diciamo, pronunciamo il nome di Dio". Tanto che la comunicazione va scoraggiata. Il linguaggio é così sacro, da non poter essere veramente utilizzato. Anche perché comunque parlare, rendere concrete le parole, le idee, le svilisce. Il linguaggio, la sua sacralità, va tenuta dentro di noi. L'incomunicabilità é fortemente incoraggiata. Quello che Burke e LeBov hanno in comune (e su cui LeBov può innestarsi) é proprio questa scelta di allontanare l'altro tramite il linguaggio.
Solo che, pare piuttosto evidente, un linguaggio che non ti fa entrare in contatto con l'altro é un po' una cosa del cazzo. Il protagonista, quello di cui leggiamo la storia, raccontata da lui ("Vorrei farti delle domande sui tuoi sintomi, sul sentiero che hai percorso verso il linguaggio, sulle scelte che hai affrontato". E questa parte, non so voi, mi mette particolarmente angoscia. Perché lo sto capendo? Perché riesce a comunicare con me? Cosa ho dovuto fare, prendere o perdere, per non venire distrutto dal linguaggio?) - comunque. Dicevamo. Il protagonista, a differenza di LeBov e Burke, ha necessità di comunicare. Di parlare. E con lui il mondo. Quando si diventa muti, si perdono le emozioni. L'impossibilità di esprimerle all'altro gli fa perdere qualsiasi senso: perché dovrei provare un'emozione se non posso condividerla? Il pensiero di un albero che cade nella foresta, se non ci sta nessuno a cui dirlo, l'ho veramente pensato? No. Manco per il cazzo. L'orrore di "L'alfabeto di fuoco" non sta tanto nel linguaggio, ma nella sua assenza, nell'abisso in cui precipita l'uomo quando non può comunicare.
Ma se possibile, il livello di orrore é anche maggiore. Si diceva che il linguaggio é pericoloso ancor prima di essere letale. Non é una sorpresa, no? É tramite il linguaggio, tramite la comunicazione, che noi entriamo in contatto con l'altro. Siamo alla sua mercé. L'altro ci può manipolare (LeBov) o ferire. Ma tanto pure, eh. E non perché ci odia o che, ma perché magari é semplicemente la nostra figlia adolescente. "L'alfabeto di fuoco" é un romanzo sulla comunicazione, sulla nostra necessità di entrare in contatto con l'altro, ma é anche un romanzo su quanto questo sia doloroso, straziante, mai pacifico. Sia perché comunque é doloroso e violento (il linguaggio in Marcus é materico. Letteralmente. Le parole sembrano uscite da un film di Cronenberg, sono fatte di carne e peli, si gonfiano e si seccano), sia perché l'altro ci può rifiutare. La figlia che prende e se ne va. E di nuovo, non é cattiveria, é che comunque le persone se ne vanno, anche perché crescono e le figlie hanno una vita lontano dai padri. "Fare il padre da soli é problematico [...] É difficile fare il padre senza un figlio. Come si può fare il padre, se il figlio non c'é piú, ma il padre non ha ancora finito la sua opera, ha ancora degli slanci paterni da esprimere, non avendolo potuto fare a sufficienza quando aveva il figlio sottomano?"

Jun 15, 2018, 7:08 PM

una noia micidiale. mi è sembrata una grande e pretenziosa metafora del rapporto sadomasochistico tra certi genitori e i loro figli, ma dio mio, 300 pagine e tante cervellotiche complicazioni di carattere medico ed elettrico! cito da pagina 111: "language happens to be a toxin we are very good at producing, but not so good at absorbing". ecco, marcus ha prodotto linguaggio in sovrabbondanza e io, nell'assorbirlo, mi sono sentita intossicata.

Jan 5, 2013, 2:27 PM