Giu
"Dal giorno che il vecchio ha inchiodato quella targa sul muro".

A volte è un libro che sbanda, come un tronco portato dalla corrente del fiume che rotola, si gira e SBANDA dalla terza alla prima persona, da un personaggio all’altro, tempo, luogo, voce si incalzano a creare un flusso spezzato che è davvero faticoso seguire, ma che rende benissimo la concitazione del momento. È un casino da seguire questo libro. Soprattutto all’inizio, è una fatica di Sisifo. Ma a un certo punto si arriva in cima, e allora tutto rotola facile, trascinandoti con sé, come un carico di tronchi liberati verso il fiume sotto la pioggia. 
E’ un libro sbilanciato, imperfetto, imprevedibile, intenso, bellissimo. 
E’ un libro a tratti cinematografico: con rapidi passaggi di inquadratura che mettono a fuoco i diversi personaggi in uno stesso momento, cosa fa ciascuno nel suo spazio e nei suoi pensieri, in un montaggio da Oscar. Con appelli al lettore, “guardate” ,”venite a vedere”… che sembrano prenderti per mano, accompagnarti, per poi – vigliacco - lasciarti in un posto sconosciuto, scivoloso e pieno di rovi che magari è un luogo preciso – siamo in Oregon, terra di acque, alberi altissimi e uomini che li tagliano (il fiume Wakonda che raccoglie le piogge delle foreste e le versa nell’Oceano Pacifico, e l’Oceano che penetra nel fiume, e i tagliaboschi che come formiche radono pezze di bosco umido facendo rotolare i tronchi nel fiume per mandarli alle segherie) o magari è una mente, un personaggio in cui ti perdi per qualche riga cercando di seguire i suoi pensieri e capire chi diavolo è… dal ritmo, dal linguaggio, da quello che dice a se stesso, e a volte le righe sono così piene di bellezza che non è poi così importante chi sia, questo tizio. Raramente mi è capitato di capire così poco di una storia, di tornare indietro così tante volte, eppure di godermela lo stesso così tanto. E ‘uno di quei libri che quando sei verso la fine sei triste, perché sta finendo. Una malinconia addolcita dal pensiero che sarei andata a rileggere le prime cento pagine, perché alla luce della storia avrebbero guadagnato un bel po’di senso. È un libro che mi ha fatto piangere (sul serio) a un certo punto. Eppure, i personaggi non sono amabili, per niente, per molte pagine.
È un libro molto mentale, cosa che il cinema non può fare, intendo: rappresentare i flussi delle coscienze, perché Kesey è generoso con tutti i personaggi, non a caso sono 800 pagine di roteanti punti di vista e storie personali, tutte a fuoco, molte memorabili. A volte si apre a lunghe descrizioni naturali, stupende, sensoriali e vivide, spesso insolite (non è un paesaggio idilliaco, non è romantico né epico né convenzionale, è esso stesso un personaggio, il paesaggio. Bagnato, potente, comunica con le nuvole, i colori, col vento, il ruggito dell’acqua, lo schianto dei tronchi, gli uccelli- le oche!, tutto è vivo e pensante, alberi e oggetti, “il furioso schioccar di corteccia che si piega, si volta verso il tronco appena in tempo per veder comparire una lucente schiera di denti bianco-giallastri sulle labbra muschiate e strappargli di mano la sega e gettarla a terra con rabbia quella graffia e urla in preda al fremito e al terrore cercando di scavarsi una via di fuga dal legno vendicatore…”). Un posto che “per capire ci devi passare un inverno”, si ripete come un mantra, come una chiave di senso.
Mi rendo conto che ho già scritto tantissimo e non ho detto niente sulla storia, cosa ho descritto finora… lo stile? Forse… è una specie di avvertenza, cioè, se uno (un lettore) non ha voglia di faticare come Sisifo, meglio che non si cimenti con queste 800 pagine… Detto questo, di cosa si parla? In estrema sintesi, roba da uomini: rivalità tra fratelli, incomunicabilità fra generazioni di padri e figli, conflitto tra individuo e comunità, confronto tra forza e debolezza, uomini di carta vs uomini di granito, vendetta, rivalità per una donna, uomo vs natura, corsa a ovest verso la frontiera, lotta di classe. Detto questo, nessuno di questi temi topici è maneggiato in maniera convenzionale. Nessuno. Per me questa è la Letteratura con la maiuscola: prendiamo un topos millenario (voltiamo le pagine indietro fino a Caino e Abele? Omero? Edipo?) e vediamo che svolgimento ci srotola il nostro Kesey, giullare e sommo sacerdote della corte psichedelica dei Merry Pranksters… e quello che ci apparecchia non è niente di ciò che ci aspettiamo, è più grande, più alto, più profondo, più sporco, più vero, sta al mondo con i piedi ben piantati nel suo tempo e insieme, con la testa ben alta e lo sguardo perso nel tempo universale.
Mi sto davvero dilungando, ma un libro così spesso penso che meriti una lunga recensione, e poi oggi è vacanza, e a questo libro ho dedicato un sacco di tempo, e ci tengo tanto, e insomma. Faccio qualche esempio. Il mito della frontiera si contorce in un cortocircuito per cui la volontà di andare sempre più in là, verso ovest, è una maledizione, un marchio, un peccato di famiglia – la stirpe degli Stamper – “tormentati da un eterno prurito ai piedi”, il mito tutto americano dei pionieri è sviscerato in una ricerca personale, intima di spazio vitale che non è mai un successo, mai soddisfazione, mai pacificazione, è quasi una predisposizione genetica (e universale) alla lotta con la natura e con gli altri uomini (anche nella stessa famiglia) dove il fiume è sempre lì a pretendere “quello che gli spetta” e a mangiarti via la terra sotto i piedi, la casa è una sorta di Arca protesa sull’argine da rinforzare ogni notte con chiodi e martello, gli uomini sono diffidenti, uniti solo dalla paura (in modi poco ovvi e molto sfaccettati, come il piacere nel veder cadere l’albero più alto della foresta, per dirne una…)… “Mai cedere di un millimetro” (NEVER GIVE A INCH) è il motto del patriarca Stamper e la maledizione che marchia Hank, il fratello tutto durezza e coraggio, “Occhio!” (WATCH OUT) è la voce della sentinella mentale di Lee, lo Stamper intellettuale inetto che contraddice e tradisce dolorosamente la sua stirpe e torna dall’est dove non è riuscito neanche a portare a termine con successo il proprio suicidio (pagine memorabili in cui fa esplodere la casa colpendo il postino che porta la missiva con cui Hank lo richiama a ovest… inesorabilità da tragedia greca in salsa acida freudiana, stupefacente, assurda). L’incomunicabilità tra i due fratelli è commovente, esasperante, avvilente, l’incomprensione tra tutti quanti i personaggi è un sottotesto interessante soprattutto quando emergono individui che vedono più lungo e a fondo degli altri – il barista Teddy, il sindacalista Draeger, - e sanno manovrare a proprio vantaggio le debolezze della gente… “…Tu lo sai cos’è – la gelida forza in agguato nel buio – che smuove la gente. E sai che non servono tamburi, chitarre e musica d’organo per far ballare gli idioti. Tu sai che il Dio di Fratello Walker è un Dio di paglia, un fantoccio da agitare in faccia al vero Onnipotente… un feticcio, e nemmeno potente come altri feticci quali l’Opinione del Sempliciotto della Porta Accanto e Le Grandi Imprese da Compiere… ognuno dei quali non è neanche lontanamente potente e terribile quanto la Forza che li ha creati, la Paura che li ha creati… è la natura delle bestie cercare protezione nel gruppo. Tamburi e chitarre non servono. No. E’ sufficiente avere intorno gente che questa paura la provi, proprio come a qualsiasi calamita per essere una forza è sufficiente del ferro da attirare… giusto, sbagliato, buono o cattivo non contano niente, conta solo la forza d’attrazione. Ancora un attimo e gli idioti non ascolteranno più, si lasceranno semplicemente trascinare. Non serve che pensino. Sarà la natura del loro timore a farli convergere. Come sfere di mercurio che corrono a farsi inglobare da una più grande…per andare a gettarsi in un oceano di mercurio”. E tutta la retorica americana sulla forza dell’individuo che persegue felicità e successo, e sulla lotta dei pionieri che tutti insieme – e solo se restano solidali - hanno la meglio sulla natura (ideologie a confronto, che diventa epico tra Hank e gli altri tagliaboschi in sciopero) si sbriciolano. In verità, gran parte di quello che ho raccontato finora è solo sullo sfondo, perché il cuore che batte in questa storia è la relazione tra i due fratelli, “siamo legati, fratello, ammanettati insieme per tutta la vita, proprio come gli uccelli sono legati alle onde in una canzone di pazienza e panico. Duettiamo così da anni, io che pigolo e pilucco briciole e tu che fracassi e ruggisci… solo che adesso, fratello mio, i ruoli si stanno invertendo, e tu affranto inizi a intonare il canto del panico mentre io sento montare dentro il prolungato e mesto ruggito della pazienza in ritirata…” così se la racconta Lee, con il suo linguaggio artificioso. E intanto Hank, l’invulnerabile, quello che tiene in piedi - letteralmente - la baracca, riflette sulla forza e la debolezza, “non esiste, la forza…non la forza in cui ho sempre creduto, la forza per vivere e insegnare a vivere al ragazzo…no, non esiste la forza, esistono solo diversi gradi di debolezza…” Tutti pensano, pensano, parlano, e ancora pensano, si arrovellano, elaborano piani, si agitano, sbraitano, e nessuno, nessuno ascolta, e quindi nessuno capisce qualcun altro. Incomunicabilità totale. Anzi no, c’è uno che ascolta: attenzione a Joe Ben, il piccolo Joby, il pagliaccio, il cugino semplicione, quello che nessuno prende sul serio e che nel suo affannarsi a far ridere gli altri percepisce i minimi mutamenti di umore intorno, con la sua filosofia di vita così ingenua, "bada alla ciambella, non al buco". E ti spezza il cuore.

Dec 26, 2022, 8:56 PM