Esiste una via d'uscita per la coscienza che vuole farla franca a tutti i costi quando si tratta di fare i conti col proprio passato? L'autore di questo accurato - quanto grottesco - e godibilissimo - quanto surreale - romanzo, mette in scena un tribunale sospeso tra Polanski (vedi L'inquilino del terzo piano) e Christie (vedi Assassinio sull'Oriente Express) e vince la scommessa riuscendo a dimostrare che non esiste tribunale più equo e giusto del proprio condominio. Se da un lato è la coscienza stessa a non poter fare a meno di essere giudicata, soprattutto quando è solleticata dalle note di un pianoforte, dall'altro la resa drammaturgica della sentenza arriva frettolosamente e senza ulteriori indugi sul medesimo pianoforte. Ma la metafora della vita, che sale e scende per le scale, bussa alle porte, riceve inviti ambigui dai vari condomini (le vecchiette mi hanno ricordato un non-so-che delle Sorelle Materassi), poteva ripulire mani e danaro dal sangue del passato? Assolutamente no (ma se l'autore avesse calcato meno la mano su questo 'assolutamente'...), se ciò che vive al di là dello spioncino profuma di donna e di alcol. O di cibi speziati.

Aug 17, 2014, 9:53 AM
Estratto da scrittevolmente.com

Condominio Marrakesh fa pensare a molte cose. Per certi versi rimanda a Kafka, per altri alle angosce di Dostoevskj. Scritto in prima persona, non possiamo fare a meno di domandarci quanto l’autore ci abbia messo del proprio vissuto. È, questo, uno dei primi aspetti che Andrea Bertozzi ha chiarito durante la presentazione: i personaggi sono tracciati un po’ in presa diretta, un po’ rievocando impressioni, esperienze, ricordi personali, fino a muoversi verso direzioni e sviluppi inattesi.

Il protagonista del romanzo è un nuovo inquilino che potrebbe essere chiunque di noi.

Soffre di attacchi di panico notturni, ha un conflitto irrisolto con il proprio passato, ma neppure il presente sembra uno dei migliori possibili. Sappiamo poco di lui: non ha mai preso la patente, è un fantasma per la sua capacità di comparire all’improvviso sbucando dal niente. Non per l’eleganza o la grazia di un gatto, ma per la sua presenza inconsistente, invisibile. Tanto che è superfluo conoscerne il nome, nessuno sembra avere la necessità di chiamarlo. Nemmeno il lettore. È un testimone che vuole restare appartato. Prova sofferenza nell’entrare in una storia che vorrebbe non lo riguardasse. Anzi, mette piede nel condominio Marrakesh affinché ci si dimentichi di lui, lo si lasci perdere, non lo si infastidisca più di tanto.

È lui a rappresentare il vero enigma, quasi non ce ne accorgiamo perché devia con abilità la nostra attenzione verso gli altri personaggi, che appaiono in sequenze veloci, con le sfumature del giallo. È lui a raccontare tutto, attento al dettaglio, agli altrui destini, ad assorbire e registrare nella pagina ciò che gli sta attorno, intento a costruire il romanzo che stiamo leggendo. È lui a incamminarsi sugli ottanta scalini senza ascensore, dentro una barricata-fortificazione nella quale nascondersi.

Il lettore segue la sua scia di pensieri e, se si pone domande, riguardano il misterioso condomino pianista del secondo piano, o la portinaia Giovanna (Signora Giove), le sue uscite alla chetichella, i dimoranti dello stabile. Di lui, appunto, non domandiamo niente, forse per una misteriosa sintonia, un’empatia di fondo che man mano si fa sospetta.

Che nasconde questo meschino personaggio senza nome, inquilino di un palazzo che non ne è privo?

Un nome, qualsiasi nome, non è un marchio o un distintivo di contorno. È un segno di appartenenza alla realtà, a una dimensione con la quale rapportarsi.

Il sottile paradosso che ne consegue è presto detto: il protagonista è assente a se stesso ma oggetto dell’altrui curiosità, la stessa che prova verso il condomino del secondo piano, anch’egli, guarda caso, senza nome.

Il tema portante del romanzo è il bivio. Bivio che riassume l’esistenza di ciascuno, un groviglio inestricabile privo di facili soluzioni. Da qui il dubbio amletico, la ritrosia, la sfiducia verso qualsiasi scelta, da qui un’esistenza contorta trascorsa tra la paura di scegliere e la responsabilità che deriva.

Su tale bivio poggiano le fondamenta del condominio Marrakesh, stazione di un ignavo che si nasconde sottocoperta, studia coloro che incrocia lungo la strada che non percorrerà mai.

Il racconto si apre ad atmosfere surreali, di sogno che diviene incubo. Come il complotto sotterraneo di chi tenta di farlo uscire allo scoperto, attribuirgli un ruolo, un nome, affinché possa rendere conto a qualcuno della sua presenza-assenza:

Ho trascorso un tempo indefinito rinchiuso in un non-luogo che si faceva immagine e somiglianza del mio non-essere.

Pretende poco da se stesso e quel poco è già troppo. Vano è lo sguardo rivolto al se stesso di un tempo.

La seconda parte del romanzo scandaglia il suo passato per trovarvi un senso o un segno, e distenderlo in una dimensione più intima che valga, se non a scusarlo, a giustificarlo. Ma nemmeno la storia che costruisce su di sé gli attribuisce un volto, o un nome che gli somigli. È senza ritratto, non se ne è dato uno. Potrebbe essere chiunque [di noi], basta prendere a prestito uno dei tratti insignificanti che non hanno fatto presa.

Si sente perso, fuori posto, prigioniero di una stazione da cui non è mai partito; di un altrove che è la famiglia, la casa, il mondo, il condominio Marrakesh. Di un altrove che assume la consistenza di un ovunque.

May 31, 2015, 11:10 AM