Virtutem a sanguine traho

Scrivo estenuata, sul finale, dal ritmo che è cambiato. 
La lingua ricchissima di Verga, indigerita quando doveva invece andar giù per forza, oggi fa l'effetto di una sostanza densa lasciata a raffreddarsi.
A metterci dentro un cucchiaino, lo si vedrebbe stare su perfettamente in verticale.
Eppure, sotto, dove la materia non si solidifica del tutto perchè non può, cova la disperazione, bollente ancora. 

La "colpa" di Gesualdo Motta è in fondo la stessa di Giovanni Verga come autore. Ad accumulare troppo, a uscire fuori dal seminato rispetto a chi precede e ad anticipare chi resta, facilmente si costituisce un enigma per chiunque fuorchè per se stessi. 

Ho letto i Malavoglia al liceo, i romanzi brevi, scapigliati, passionali, di gusto completamente diverso, estetico ed etico prima di tutto, anni dopo. 
Eva, Tigre reale, già dai titoli è facile capire che si parla d'altro rispetto ai temi più noti. 
Ricordo di aver pensato che per essere lo stesso autore, c'era davvero troppa roba. Appunto. 

Cresciuta a forza di antologie nelle quali il Mastro-Don Gesualdo
(il punto è in quel trattino, in quella sospensione che è dubbio, separazione)
è il romanzo della roba,
non avrei mai pensato che fosse invece il romanzo del gioco della sedia, che per il protagonista, quando la musica si interrompe, non c'è mai. 
La sua colpa, scrivevo.
La sua colpa, che diventa condanna, è aver seguito l'istinto, aver sviluppato le capacità per accumulare la roba e diventare il padrone del paese, lui, nato poverissimo, usando le sue proprie mani prima ancora dell'ingegno, lasciando tutti disorientati. 
Perchè in fondo, questo mastro a cui si deve aggiungere il "don" e che non può quindi essere nè l'uno nè l'altro, ha fatto tutto da solo, pensando che la pellaccia del paese, composta da cellule nobili nullafacenti cadute in rovina, borghesi e professionisti intrallazzatori, braccianti e lavoratori a giornata, non l'avrebbe espulso come si fa con un corpo estraneo, come invece succede, non prima però di aver cercato, ognuno secondo il proprio carattere, di "mangiargli" qualcosa senza poterlo mai comprendere. Nè volerlo.

E i Trao? Inevitabile congiungersi per matrimonio alla nobiltà decaduta e circondata di macerie. 
Gesualdo Motta sposa l'ultima Trao, minata, innocente, inconsapevole. 
E insieme, invece di uno stuolo di figli ed eredi tra i quali statisticamente avrebbe pur dovuto trovarsi qualcuno che fosse in grado di tenere alla roba quanto il padre e di non mangiarsela come i parenti acquisiti, i sensali, i notai, i canonici e i sagrestani, avranno la sola Isabella, Trao nell'animo, Motta per caparbietà. Infelice, infine, per familiarità.

Il romanzo si apre con un incendio e l'incendio difatti divampa, danzando sulle parole di un italiano ricchissimo, fantasmagorico, che l'autore contiene a fatica, o così mi sembra, che straborda dalle vie, alle stamberghe, alle sale di palazzo, ai campi, alle terrazze. 

Passa la processione, passano la rivoluzione, il teatro itinerante, il colera, gli anni, infine, per tutti, ma il paese, i suoi abitanti, quelli non cambiano mai. 

L'ossessione per la roba c'è, naturalmente, ma non è il motore dell'azione. 
Quello sembra essere piuttosto l'ossessione per se stessi e la propria posizione, il proprio ruolo, lo stesso che non si riesce mai ad attribuire definitivamente al protagonista,
a disagio in famiglia, di sangue e acquisita,
a disagio tra i poveri, tra i nobili,
a disagio sempre, ma da una posizione di forza indigesta agli occhi e alla borsa degli altri. 
L'unico affetto sincero glielo può tributare forse solo la beneficata, passionale compagna di gioventù, senza educazione, umilissima e devota Diodata. 

La roba di Mastro-Don Gesualdo inizia e finisce con lui, che non è stato avaro per nulla, in fondo, e il cui piacere non sta nel nascondere e ammonticchiare le cose che accumula, ma nella fatica fatta per vederle accrescersi e fiorire. Nella soddisfazione della propria opera.

La virtù del sangue non viene mai discussa, che esista oppure no. 
Quella della fatica invece non viene neanche presa in considerazione. 
Quali che fossero le intenzioni programmatiche di Verga, le fiamme danzano, e si va oltre.
Non si può remare controcorrente, a meno di non guadagnarsi l'accettazione della società, superandola sul suo stesso terreno, quello dell'immagine che si offre, non necessariamente quello della sostanza.
Ma questo non è il destino del protagonista. 

Faticoso, denso, eppure mi ha sorpresa. Il ritmo scende man mano, va scemando come le energie di Mastro-Don Gesualdo, che lotta finchè non gira il capo, vinto, verso la parete, come suo padre prima di lui.
E i servitori della figlia duchessa gli rimproverano con prontezza, e neanche troppo velatamente, di essere morto in un letto nel quale non è nato.

Aug 21, 2023, 8:54 AM

Un libro che ho sempre adorato, fin dalla primissima lettura: dalle pagine del Verga esce la Vita e ti colpisce allo stomaco, senza sconti per nessuno.

Nov 26, 2007, 8:42 AM
“Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco.”

Questo romanzo si inserisce in un contesto che esplora la grande epopea verista, nata nell’ultimo quarto di secolo dell’ottocento, e sviluppatasi quasi prevalentemente nel centro e nel sud della penisola, con in Sicilia Luigi Capuana e Giovanni Verga tra i massimi esponenti.
Il “Mastro don Gesualdo” del Verga è appunto uno dei grandi romanzi “veristi” che tra i primi cominciarono a raccontare la vita e le cose per come erano nella realtà, cercando di avvicinarsi il più possibile alla dura condizione umana del vivere quotidiano, soprattutto per quel che riguardava le classi sociali meno agiate; smitizzando molti luoghi comuni trascritti nella prosa dell’epoca e contribuendo così a svecchiare decisamente l’ormai obsoleto romanzo ottocentesco.
In questo romanzo, secondo di un ipotetico “ciclo dei vinti” che non vide mai la luce, ma di cui resta traccia nei nomi che si ritrovano nel testo, il Verga costruisce la vita e le gesta di quello che oggi, fuori dai vari gerghi dialettali, si definirebbe un “arricchito”, uno cioè che occupa un posto non suo, non importa se meritato o meno.
È sotto questo punto di vista che si svolge la parabola di mastro don Gesualdo, la cui prima condanna è proprio nel nome, con quel “mastro” che rimarrà per tutta la vita ad indicare la sua provenienza: condizione sociale che verrà ribadita fino alla sua morte.
È questo dell’estrazione sociale uno dei temi che ricorre in maniera trasversale per tutta la narrazione; Verga vede il contesto sociale nel quale un individuo nasce come una vera maledizione dalla quale non si può né fuggire né salvarsi e a cui nulla servono i vari tentativi di camuffamento per rendere il fardello meno pesante, ed è questa una delle lezioni principali dello scrittore: al di là della discriminazione razziale o economica rimarrà sempre latente negli uomini una discriminazione sociale, continua e strisciante, che accompagna tutt’oggi la nostra quotidianità, che non sarà mai possibile sconfiggere e debellare del tutto.
La narrazione verista del Verga è di notevole potenza espressiva, le minuziose descrizioni delle campagne ricordano paesaggi visionari di autori successivi che ben hanno assimilato la sua lezione realista, le introspezioni psicologiche dei personaggi sono rese bene, ma è chiaramente nel personaggio principale che si concentra tutta la forza comunicativa verghiana: nel mastro don Gesualdo che macina tutto e tutti badando solo al sodo, costruendo un impero economico, si direbbe oggi, che possa proiettarlo, attraverso le sue visioni, nell’immortalità temporale, nel suo scrollarsi di dosso ogni tipo di parassiti che non abbiano a capire che tutto quello che ha costruito è frutto del suo duro lavoro e di come sia difficile per lui capire le resistenze nell’essere accettato per quello che è al di fuori del suo mondo.
È in quest’ottica che s’inquadra la mitica scena nella quale la rappresentazione tragica del Verga assume in questo romanzo toni molto elevati: Gesualdo Motta, ormai malato e assistito da varie persone, che badano più ai suoi soldi che alla sua salute, capisce che tutto quello che ha costruito non potrà garantire neanche il suo benessere dai malanni che lo affliggono e vorrebbe, a quel punto, che nulla potesse sopravvivergli.
È questa l’apoteosi del verismo verghiano; la tragica condizione umana non riesce ad elevarsi oltre quello che appare solo come un chimerico uso della vita intesa come esistenza terrena: in quell’epoca, in quel momento storico, in quel contesto socio-culturale, l’uomo si dimostra ancora troppo “piccolo” per assimilare le grandi verità umanistiche, che dovranno aspettare tempi migliori per essere recepite ed espletate, se mai tempi di questo genere ne verranno, e il Verga stesso, leggendo tra le righe, non è che fosse molto ottimista al riguardo, in ottemperanza al suo profondo verismo…


Qualcuno dei passaggi caratteristici del romanzo

“E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi.”



“Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!..”



“Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.”

Dec 25, 2015, 9:51 PM