Tempi moderni

Romanzo storico notevole, molto bello e interessante, ben al di sopra delle aspettative. Un capolavoro della letteratura italiana particolarmente avvincente.
Benché inizialmente lo stile appaia un po' datato, già dopo le prime pagine m'è parso consono alla narrazione.
Ambientato in Sicilia nel periodo 1855-18882. Sullo sfondo gli avvenimenti nodali e i rilevanti cambiamenti della Storia siciliana e d'Italia.
Protagonisti i componenti della famiglia Uzeda, d'alta aristocrazia, "i Viceré", nelle loro vicende private e pubbliche.

De Roberto si rivela veramente un grande scrittore capace di cogliere i riflessi sociali e umani dei mutamenti storici tramite personaggi assai ben delineati con profondità psicologica, tali da risultare vivissimi e credibili nelle loro ambizioni, passioni, contraddizioni, secondo la miglior tradizione del Realismo europeo.
Un quadro impietoso della nobiltà siciliana dell'epoca e del clero conventuale aristocratico fra monacazioni forzate e privilegi di casta.

"Il lusso esteriore degli Uzeda, che prima del sessanta pareva straordinario, adesso cominciava ad essere agguagliato se non superato dalla gente rifatta".
"Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo ... La differenza è più di nome che di fatto".
"Il Gattopardo", nella propensione di Tancredi volta al 'cambiare perché nulla cambi', sembra aver trovato qui un punto d'ispirazione.

Nov 30, 2021, 10:30 AM

Pareri di ogni segno sono stati espressi su quest’opera di De Roberto, che ha avuto molti detrattori (com’è arcinoto, tra i più accaniti fu Benedetto Croce) e altrettanti sostenitori, con Sciascia in primo luogo. E’ indubbio che per chi sia siciliano e per chi ami o voglia conoscere la Sicilia dell’800, nel momento del fatidico e difficile traghettamento dal regno borbonico all’Unità di Italia, questo è un testo imprescindibile.
Un testo ricco di personaggi e vicende, una specie di romanzo corale anche se non strettamente in senso verghiano, un caposaldo della letteratura naturalista e realista che si sforza di descrivere – riuscendoci benissimo – il disfacimento della classe nobiliare siculo-borbonica di stirpe spagnola, magistralmente rappresentata dagli Uzeda-Francalanza, soprannominati appunto “i viceré” per la carica che avevano in tempi passati rivestito.
Di ascendenze e similitudini letterarie se ne potrebbero rintracciare molte, ma servirebbe solo a distrarre l’attenzione da quello che è il nucleo del romanzo, la fotografia estremamente veritiera (De Roberto lo iniziò nel 1894, quindi dopo pochissimo tempo dalle vicende narrate) di come una famiglia di nobili latifondisti, abituati a gestire le persone (e non solo la servitù) come fossero pedine, si “ricicla” abilmente e senza scrupoli nel nuovo sistema politico della nostra penisola. Nulla di strano quindi, anzi qualcosa di profondamente e innegabilmente italiano, nonostante più d’un secolo sia passato da allora.
La razza degli Uzeda è una razza malata, dal sangue ormai corrotto e in disfacimento (orribile l’episodio della creatura malformata partorita da Chiara e conservata in formalina), ma è la loro anima prima d’ogni altra cosa ad essere malata. Come in ogni famiglia nobile che si rispetti, bisogna onorare il diritto della primogenitura, e quindi la principessa Teresa, quella con la cui morte si apre il libro, ha fatto delle vite dei suoi figli ciò che ha voluto: matrimoni, celibati e nubilati imposti, carriere monacali ed ecclesiastiche forzatamente attribuite, totale disprezzo per i desideri e le inclinazioni del singolo. Alcuni personaggi sono davvero memorabili (penso soprattutto al godereccio, perfido e irascibile don Blasco, benedettino solo sulla carta, in realtà più sanguigno d’un popolano e rozzo d’un villano), nessuno è davvero buono o positivo, anche la pia e sottomessa Teresina è in realtà una che agisce per convenienza, per quieto vivere, per facciata. Dai moti antiborbonici post-48 allo sbarco dei garibaldini, all’Unità d’Italia, fino alla diatriba tra Destra e Sinistra Storica, gli Uzeda mostrano come gattopardianamente (e il paragone non è scelto a caso) nulla davvero cambi nella società, che la politica, conservatrice o progressista, sia solo l’arte del trasformismo e del riciclo (dal duca Gaspare, ex borbonico e poi deputato di destra, al nipote Consalvo, da scavezzacollo a studioso di politica, a deputato di sinistra, passa solo un filo di capello). La storia è una monotona ripetizione; – dice Consalvo – gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. E conclude, affermando con piena coscienza e convinzione: No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.


Notazione linguistica che m’è parsa curiosa: De Roberto usa, in un manifesto politico affisso nel 1882, l’espressione “Meeting elettorale”. L’uso del termine inglese a fine ‘800 mi ha alquanto meravigliata.

Jan 5, 2010, 1:49 PM
Del potere e delle pene: l'apocalisse di una dinastia

Circa un secolo fa l’autore italiano più incompreso di tutti i tempi, Federico de Roberto, iniziò la stesura di uno dei più straordinari esempi di letteratura italiana nel senso più alto del termine, I Viceré, secondo volume di una trilogia incentrata sulla storia e sugli intrighi passati e futuri della dinastia Uzeda di Francalanza. L’autore, intenzionato a metterne in risalto crepe e vizi, in poco più di 500 pagine dipinge un quadro lucido e dettagliato esplicante i tre aspetti fondamentali della società dell’epoca -la famiglia, lo Stato e la Chiesa- riuscendo a dar vita ad un romanzo caratterizzato da una profondità e da un’attualità ancora oggi sorprendente.

Tutto ha inizio durante gli ultimi anni di dominazione borbonica in Sicilia; protagonisti di quest’epoca sono gli Uzeda di Francalanza, discendenti dei Viceré di Spagna, nati e vissuti in un mondo di fasti e splendore, ma di altrettanta prepotenza e povertà morale; un’epoca di cambiamento, di crisi, di rinnovamento in cui sembra impossibile sopravvivere se non restando schiavi di regole e tradizioni. I Viceré si fanno portavoci della loro realtà, terribili e feroci sebbene lucidi testimoni dal sangue vecchio e corrotto, che attribuiscono al proprio storico nome, ai propri titoli ridondanti il loro doveroso posto nella società italica e la facilità con cui le vie maestre si aprono innanzi a loro.

Uno fra tutti il Principe Giacomo Uzeda, quello che più di chiunque altro nel romanzo porta alta l’essenza della propria dinastia, l’imperioso desiderio di comandare, di veder tutti piegati innanzi alla propria volontà di pater familias, di arbitro assoluto dei destini di coloro che gli stanno vicino; per questo, fin dall’età della ragione, egli impiegò la sua vita martoriando chiunque potesse giocare a favore della propria possente ricchezza, fatto di loro ciò che gli era piaciuto per accumulare nelle sue mani quanto più denaro gli era stato possibile diventando, più di tutti gli altri Uzeda, il rappresentante principale della propria ingorda famiglia unicamente intenta ad arricchirsi, cieca ad ogni altra virtù e potenza se non quella derivante dai soldi. Ci ricorda qualcuno?

Dall’altra parte troviamo il suo più diretto discendente, il figlio Consalvo Uzeda, sposo della neonata democrazia e genero del rinnovamento, l’unico che riconosce e ammette la parte oscura della propria discendenza, l’unico in grado di sopravvivere e di farsi strada nell’Italia bambina. La lotta con il padre dall’autorità innegabile lo aveva portato ad aborrire non solo la propria famiglia, ma anche il proprio paese. Nella sua testa avveniva una rivoluzione, come quella che era stata portata dalle truppe garibaldine nella sua Sicilia natale. Di un’intelligenza straordinaria, Consalvo aveva toccato con mano le mille contraddizioni della sua epoca e da questo tratto la conclusione che non c’era nient’altro di più importante che la realizzazione dell’interesse individuale: al Noviziato egli aveva constatato l’ipocrisia dei monaci, quelli che più di tutti dovevano essere portatori di una condotta imprescindibile, coloro che avevano fatto voto di povertà davanti a Dio, ma che protetti dai muri del monastero costituivano la razza più ingorda e lussuriosa; in casa aveva visto che ciascun membro della propria famiglia tirava a fare i propri comodi, calpestando affetti e principi. Quindi, agli esordi di una carriera politica senza scrupoli, il proprio sentimento di superiorità, la propria natura di Viceré gli avevano impedito di riconoscere il male nelle sue azioni contraddittorie e anche se ne prendeva coscienza pensava di certo di non far più male del padre che aveva spogliato e ingannato i familiari o dello zio duca che si era arricchito a spese del popolo.

Consalvo, al capezzale del padre morente, prova pietà per sé stesso, per le donne della sua famiglia protagoniste di stravaganze ai confini della pazzia, per tutti gli Uzeda, duri, maniaci, prepotenti, folli; ma erano forse responsabili della loro corrotta natura? “Tutto si paga!”, pensa Consalvo, e i Viceré pagavano le più invidiate fortune e il gran nome con un’impietosa deformazione morale ed anche fisica, condensata nel mostruoso aborto partorito dalla marchesa Chiara Uzeda.

I Viceré costituiscono una delle opere portanti della letteratura verista Italiana, ispirati alla corrente positivistica e naturalistica. De Roberto, grande amico di Verga e Capuana, non gode della stessa fortuna, infatti il suo capolavoro è segnato da un’iniziale insuccesso editoriale; non solo: molte personalità di rilievo dell’epoca non amarono né De Roberto né la sua Opera, giudicando fallimentare la fatica dell’autore. <br />Fra tutti Benedetto Croce sentenziava: «E’un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore (…)».

In un epoca più recente I Viceré verranno invece accolti e letti con maggiore interesse e, a discapito dei pregiudizi, verranno annoverati fra i capisaldi del romanzo storico italico, apprezzati da personalità di rilievo del calibro di Giancarlo Menotti, Indro Montanelli e Roberto Rossellini, citando anche la recente, e sotto certi aspetti deludente, trasposizione cinematografica di Faenza.

La storia dei Viceré, sosteneva De Roberto, è la metafora di una certa Italia venutasi a creare dopo l’unità del paese. Un libro che parla di odio, di rancori e di ripicche senza fine, dove la lotta all’interno della famiglia si estende oltre, fino a toccare la realtà politica e la Chiesa. <br />Ed ecco il decesso, l’impoverimento dei valori; monarchia e repubblica, religione e ateismo, destra e sinistra scompaiono, non significano più niente, di fronte al desiderio di tornaconto personale, materiale, sia esso presente o per l’avvenire. Di proverbiale attualità è l’agghiacciante frase finale dove Consalvo asserisce che la propria razza di Viceré, nel corso degli avvenimenti storici fondamentali che hanno portato alla nascita di un’Italia unita e rinnovata, non è cambiata, anzi è sempre la stessa. L’impero fondato sulla potenza, sulla corruzione, sulla ferocia, sulla disuguaglianza non è scomparso, si è solo adattato adagiandosi e prendendo la forma di una nuova configurazione storica.

I Viceré non sono solo una tremenda e, come potete constatare, attualissima critica alla politica e alla Chiesa, ma costituiscono anche un viaggio spietato nell’animo umano, nelle sue mille paure e incoerenze; un libro sul male, sull’odio, l’unica cosa che, secondo i protagonisti, fortifica e rende grande un individuo.

I fatti raccontati non hanno solo a che fare con l’Italia, con il 1850 o il 1862, ma parlano soprattutto dell’uomo in quanto tale. La sottile colpa che De Roberto attribuisce a tutti noi, agli Italiani, è il fatto di non aver mai contribuito alla grandezza della nostra nazione se non appannaggio di noi stessi, la colpa di non aver mai compreso fin in fondo l’esistenza di un’identità nazionale, sia essa collettiva e comune, ma che tuttavia rende molto più forte anche il singolo individuo.

Un capolavoro.

Dec 26, 2008, 3:11 PM