“ Affondo.
L’oceano da sotto è scuro.
Rimango ferma un istante, immersa.
Sospesa.
Senza suoni.
Biglie d’aria mi escono dal naso.
Poi la fisica e le sue leggi mi spingono su.
Esco con la testa e prendo fiato.
Vedo il dorso dei delfini emergere dalla pelle del mare e poi tornare giù, non si avvicinano.
L’acqua è freddissima.
Infilo di nuovo la testa sotto e guardo il baratro blu.
Mi abbandono.
Mi sento in prossimità di tutte le creature del mare, di tutti i mari.
In contatto acquatico con tutte le cose immerse.
Questo pensiero mi agita.
Riprendo fiato.
Nuoto verso la barca, risalgo e mi avvolgo nell’aciuganano.
I delfini non si vedono più. “
La storia qui narrata, è una storia vera, veramente accaduta alle isole Azzorre l’8 febbraio del 1989. Un aereo, il Boeing 707 IDN 1851, partito da Bergamo con 144 persone a bordo, si schiantò contro il Monte Pico per vari, concomitanti errori umani avvenuti durante la procedura di atterraggio sull’isola di Santa Maria. Nessuno di quel volo potè salvarsi. Fu difficile anche riconoscere i corpi, perché quasi nessuno aveva il passaporto con sè. Gli oggetti e i corpi furono scaraventati e sparpagliati ovunque su quella montagna da quell’impatto atroce e mortale. Non ci fu incendio. Ma solo un lungo, interminabile silenzio nel centro dell’Atlantico, nel cuore di quell’arcipelago di piccole isole vulcaniche.
A bordo di quell’aereo c’era il padre della scrittrice di questo libro. Lei allora aveva soltanto sei anni. Dopo venticinque anni da quella morte, lei ha deciso di partire per le Azzorre per tentare di capire tutto quello che veramente accadde in quel giorno di febbraio, di elaborare definitivamente il lutto attraversando nuovamente il dolore, cercando “ i frammenti “ di quel disastro.
Sono note di diario, appunti quotidiani di viaggio scritti ovunque, in qualsiasi momento, con e in qualsiasi stato d’animo. Ci sono tutti gli incontri con persone del luogo che si ricordavano ancora molto bene di quell’incidente, o avevano fotografie, o documenti video, pagine di giornali, addirittura pezzi autentici di quell’aereo, ci sono anche incontri- e incontri mancati, con chi aveva avuto una parte di responsabilità attiva in quel disastro. Soprattutto c’è l’incontro della scrittrice con se stessa e con i pochi ricordi di un padre venuto a mancare troppo presto. E c’è - oltre a tutto questo - l’incontro con le isole Azzorre, con una natura che scandisce quotidianamente il tempo degli uomini che ci abitano, e che fa dire ad una sua abitante - Teresa - che sarà anche la guida di Cecilia Giampaoli in questo suo viaggio : “ Qui è facile convincersi che ogni cosa è in relazione con le altre. “
Un pensiero interessante e affascinante, di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Ma una piccola isola, con vie senza nomi e numeri civici, spazzata ogni giorno dal vento, può ricordarcelo continuamente. Un punto interessante e privilegiato da cui osservare il mondo, una meta fondamentale per la scrittrice per trovarsi e accettare la propria vita, per perdonare forse ma anche per convincersi che tutto è accaduto davvero. E che scriverne può aiutare ad andare avanti, a trovare la via tortuosa che conduce a sé, alla propria esistenza. Questa via tortuosa è fatta di molti cammini, di molti volti, di sale e di mare, di vento. Di voli di uccelli, che stridendo girano in tondo, e accompagnano i pensieri di Cecilia che cerca prove, tracce, “ verità “, forse quelle ciabatte blu scure di gomma appartenute a suo padre, quelle che quasi ogni padre possedeva negli anni Ottanta. Cerca la strada per salire verso la montagna, quel punto preciso in cui l’aereo si schiantò tra i due picchi più alti. Ha necessità di trovarlo quel punto, di toccarlo, di vederlo. Di sentirlo. Di sporgersi fin dove è possibile, ma non oltre, questo lei lo sa bene. O ha imparato a saperlo.
“ Nella testa c’è un confine preciso, un recinto dentro il quale è bene restare. È uno spazio abbastanza grande per contenere la coscienza delle cose e tutte le emozioni sostenibili. Il panico, la fobia, la pazzia e la depressione ruminano lì fuori in attesa che tu metta il piede sulla staccionata. “
Gli abitanti dell’isola raccontano, quasi per alleggerirsi l’anima, cercano di ricordarsi di ogni minimo dettaglio di quel disastro e lo offrono a Cecilia. Sono dettagli dolorosi, che cercano di ricucire uno strappo. Di offrire un conforto là dove è impossibile essere confortati.
Su un’isola il sole tramonta sempre sul mare, il cielo quando è limpido può essere letto, interpretato, interrogato. Niente come l’isola stessa può essere di conforto, di aiuto per un dolore così grande. Mare da tutti i lati, “ pochi chilometri per restare vivi “.
Una storia che si “ conclude “dopo un mese di soggiorno alle Azzorre, un aereo in partenza per Lisbona, mentre
io penso a quella frase di Fernando Pessoa che un giorno scrisse : “ I viaggi sono i viaggiatori. Quello che vediamo non è quello che vediamo, ma quello che siamo. “
Ottimo libro.
La narrazione di sé per me funziona nel momento in cui io-lettore smetto di interessarmi che sia una "storia vera", ma entro nelle emozioni comuni, entro, insomma, nella tendenza all'universale che è la letteratura.
Questo è il salto che fa Cecilia Giampaoli con Azzorre che, fin dalle prime pagine, smette di essere il proprio diario e diventa un romanzo collettivo di incontro con i fantasmi, con l'altro, con sé. E cosa c'è di più universale e pauroso dell'incontro con le parti dolorose della nostra storia?
Questo è inoltre scritto con uno stile scorrevole e intenso - maturo, se si pensa che è un esordio - in cui si incontrano racconto, esplorazione e introspezione.
La storia è quella del suo personale viaggio sull'isola in cui suo padre perse la vita in un incidente aereo.
Nella quarta di copertina c'è scritto che "L'autrice racconta di un viaggio decisivo, il suo". Ecco, io direi che, con Azzorre, ha fatto sì che sia diventato il nostro.
Finalmente stamattina ho terminato "Azzorre" di Cecilia M. Giampaoli. Dico finalmente perché mi è arrivato lunedì 6 luglio [poco prima che uscissi per andare a fare una visita, la prima volta che sono tornata in un luogo chiuso dal 9 marzo e avevo paura. Paura per il distanziamento, paura per l'eccessiva attesa e il contatto; paura per l'esito della visita - la solita, ogni 6/8 mesi da 26 anni e ho portato con me una storia che fa paura] e ho iniziato a leggerlo mentre ero in attesa. E pensavo che sono poche più che cento pagine e lo avrei letto al massimo in due giorni. Invece no. La storia di Cecilia, la ragazza che ha scritto questo romanzo / diario, racconta di una ragazza che qualche anno fa ha preso coraggio e si è recata nelle Azzorre, nel luogo in cui l'aereo su cui viaggiava suo padre, con altre 143 persone, si è schiantato contro una montagna e lei ha perso il padre. Una storia dura, cruda, una storia in cui lei si fa forza, coraggio e affronta con gli occhi bene aperti e le orecchie attente tutto quello che le viene mostrato, raccontato. Cecilia ci fa essere protagonisti, ci spalanca gli occhi, ci fa essere lì con lei. Più volte mi sono dovuta fermare. Ho pensato "ora basta. Ho bisogno di una pausa". Mi si è stretto lo stomaco. Ho pianto, in più parti. Sono riuscita a empatizzare con lei, a sentirne il dolore, la stanchezza, ad ammirarne il coraggio di perdonare. Ha abbracciato persone, si è fatta riconoscere, si è fatta voler bene. Ha trasformato la rabbia in amore.
"Il sangue mi si calcifica in corpo, il cuore emette dei toni bassi per pompare quella roba improvvisamente addensata e la saliva si asciuga... ...Non riesco a parlare......non lo vedo più". (p. 63)