Alcuni poeti vanno solo ascoltati oppure solo affiancati nel silenzio, col silenzio, del loro ascolto dei mondi di dentro, fuori e poi ancora dentro. Fermi a osservare la parola che si crea e che egli stesso affida al vento.
Alcune letture mi arrivano tardi, sedimentandosi col tempo, poiché subito leggo per immagini e dunque vedo questo ragazzo così serio, così seriamente quieto sul suo crinale a scrivere quel che un luogo può (ri)costruirgli dentro. Luogo metaforico, direte, sì, soprattutto, ma anche fisico, anche quel paese lucano in cui Alfonso vive e dal quale poco si allontana, quasi che la terra madre operi una malìa incantata e incantatrice, un legame d’amore e di resistenza con quegli animi sensibili, crepato il cuore, crepata la mente, come quella stessa terra, dura madre, aspra e contratta al sentire. In queste poesie ci sono sassi e muri, campi alberi ed erbe, case vuote e abbandonate e tutti penano come pena il cuore. Leggendo Alfonso ho avuto l’impressione di inserirmi per un attimo nel flusso incessante del suo pensare, studiare, costruire sensi, io circondata da segni e parole. Se si è attenti, puoi vedere ciò che dentro egli trattiene. Non è facile, vi avverto, a volte è solo buio altre solo un rumore di sottofondo che lui chiama vento. E c’è un vento, in quel luogo di limiti, che a volte è una voce e altre è la tua stessa.
IV
Mio Doppio, più fingi più solo muori.
Ti rallegri, in anni bui, di una sete
possessiva, di un accanimento alla ferita
che fecondi e svuoti. Scopri che insieme,
tu e l’altro, siete lunari e terribili
come l’Angelo che detta il monologo.
(da I PENATI, pag. 14)
CARI
Caro il giorno che va via, silenzioso,
cara uva luglienga e caro deserto,
voci, nessuna, i campi stanchi passano,
fermi, nei vetri, giallo paglierino,
con gli ulivi e, in cima, il bosco, le querce
strette una all’altra, una foresta fitta.
Caro il balcone, solitaria stretta
di luce, cara la storia che il sasso
segna tra i confini e la cecità
nel celebrare le distanze. Tra me e voi
c’è un vuoto, si è aperto un lungo tacere.
La solitudine è quieta, abituata
selvaticamente alla sottrazione.