Spesso, leggendo, ho avuto l’impressione che un’immagine mi attraversasse la mente. Un’immagine legata all’ idea che mi andavo via via facendo e alle sensazioni che le pagine mi trasmettevano, ma quel suo passaggio era così fulmineo che non riuscivo a vederla, a definirla chiaramente, ad afferrarla. Eppure -lo avvertivo- avrebbe rappresentato la migliore sintesi possibile per il libro, quella che nel tempo diventa spesso il solo ricordo che ne resta, o il più immediato. Ora che l’ho chiuso definitivamente -non penso che lo rileggerò, anche se forse dovrei farlo per cercare di comprendere appieno- l’immagine ha acquistando contorni netti, chiari.
E’ quella di una palla da basket che viene tirata verso il canestro e finisce sul bordo. Lì oscilla per qualche attimo, in perfetto equilibrio, ugualmente sospesa tra un “dentro” e un “fuori” possibili, avendo cioè in ogni impercettibile vibrazione entrambe le potenzialità, ancora. Potrebbe… Non potrebbe. Forse sì… Forse no.
Ecco. Così il libro di Scibona, per quanto mi riguarda. Poteva essere un capolavoro. Stando sul bordo del canestro, ha oscillato a lungo verso l’interno per quella sua scrittura che in talune pagine è davvero potente, piena di forza, di vitalità; quella scrittura che ha un timbro profondo e maschio; quella scrittura che ha una cadenza personalissima, sincopata a tratti, e una punteggiatura che diventa la misura di ogni respiro, di ogni esitazione, di ogni trafittura di pensiero… Quella scrittura che è molteplicità di voci, tutte diverse ma tutte ugualmente intense e tutte ugualmente dolenti -la voce di chi deve farsi largo tra i propri pensieri nascosti o confusi, così come nella vita, cercandone il senso, e fare i conti con il loro affollarsi, il loro urgere, il loro chiedere, il loro smarrirsi o il loro nascondersi, tacendo.
Sono voci molto belle, molto vere, molto autentiche… Rocco, Enzo, Ciccio, Patrizia, Lina, Costanza...
Però.
Non so se ciò si debba a Scibona o al traduttore (al doppiatore, mi verrebbe da dire) -l’ho anche cercato con Google, Ambrosi. Giovane. Immerso in un mondo azzurroartificiale- ma il primo appunto che ho nel mio foglietto è: Periodi faticosi. Ripetizioni.
E’ voluto? Probabilmente sì. Rocco La Grassa, il panettiere dalla fede semplice e incrollabile che si è chiuso nella solitudine delle sue stanze come in una cittadella, che desidera solo la compagnia di se stesso, che ha visto fallire il desiderio di avere vicino la moglie e i figli, i suoi tre ragazzi, per osservarne compiaciuto e realizzato il progressivo indurimento che deve renderli “abili” alla vita, un indurimento simile a quello dei mattoni che, pur modellati, devono ancora essere cotti, guardandosi attorno, in Elephant Park, Ohio, penserebbe senz’altro: La campana nel campanile della chiesa…
Ma in altri casi, ad esempio: “Qualcuno disse, «Ecco cosa ti posso dire mi ha implorato. E potrei anche dire…»” è Scibona o è Ambrosi? Cioè: così deve essere, o così è stato tradotto? Perché saperlo farebbe la differenza.
La lingua, la frase, la parola è qualcosa di molto importante in questo libro. Di fondamentale, anzi. Perché si tratta di qualcosa che determina l’identità, l’esistenza, qualcosa che diventa radici, possibilità di essere, di avere il futuro, di venire da un passato. E ancora: è possibilità di trovarsi, di giungere al proprio compimento -il fine di sè e la fine di ogni cosa- di comunicare quel sé agli altri, di avere la realtà, di farne parte -il gioielliere afferma che il suo nome è l’unica cosa viva, l’unica speranza di rompere la propria solitudine.
La lettura diventa faticosa dopo un po’, come camminare avendo scarpe con zatteroni di fango sempre più spessi, sempre più pesanti. Occorre fermarsi. Rileggere. Ascoltare le parole, il loro ritmo, il loro risuonare nell'aria. Perché per capire bisogna essere davvero lì, a Elephant Park -un posto dove scordare la bellezza, se mai la si è conosciuta; un posto in cui non ci si diverte e dove si aspetta la fine, lavorando. Un cielo di ciminiere e un suolo di spazzatura- nel 1953, o anni prima (la narrazione è strutturata secondo diversi piani temporali che si intersecano, si avvicinano gradualmente per chiudersi là dove avevano avuto origine).
Occorre giungervi dopo essere partiti da migliaia di chilometri di distanza, magari da Aci Trezza o dal Lazio, ed essersi allontanati da ciò che si era nella precedente realtà.
Occorre diventare Rocco, l’uomo di salde convinzioni, ma smarrito nei propri ruoli di padre e marito; confuso nei suoi pensieri -forse perché ha “la testa tra le nuvole e lassù vi è una certa oscurità”- e riguardo a sé, a ciò che vuole, a ciò in cui crede, perché adesso, a cinquantasette anni, sente di non avere nulla e forse, camminando nella vita, si è allontanato da ciò che era o pensava di essere, si è accorto che le situazioni e i giorni gli sono sfuggiti e che è rimasto all’esterno di quella società che vede costantemente davanti a sé, e in frammenti scomposti, isolati.
Occorre diventare Ciccio, il ragazzo libero e imperturbabile, sfrontato nel suo metro e ottantacinque di adolescenza, peli, brufoli e denti marci. Occorre avere dentro la sua rabbia, la sua solitudine, la sua curiosità del mondo, pur ipotetico e fatto di una realtà che è miraggio destinato a dissolversi, e di quella vita a cui non si può sfuggire. Soffrire il suo senso di non appartenenza, perché lontano dalle origini, perché proiettato dal caso in un’altra orbita e diviso per sempre da quella parte che è rimasta irrimediabilmente lontana.
Occorre diventare la signora Marini, l’ultranovantenne cinica ed egoista, energica e priva di tentennamenti, che ha scelto di non restare intrappolata in nessun passato; decisa, nella vita, a impersonare se stessa, a infilzare sotto i tacchi pregiudizi e false dottrine, perché la sua religione ha sempre poggiato le basi sul fatalismo, inteso come unica verità. Decisa a cercare la vita della mente, a diventare, lei, consapevole anche se il mondo non lo è, né le cose attorno. Occorre vivere la sua nascosta vulnerabilità, che è quella del passato con il quale non sa riconciliarsi. Fatto di immagini sbiadite che ogni tanto le entrano nella mente, di ricordi che sembrano appartenere a una realtà diversa e mai vissuta; fatto del rifiuto delle diverse sé che si è lasciata alle spalle, di quello strappo deciso che l’ha consegnata a una nuova vita, del dolore che ogni volta ha voluto e saputo congelare da qualche parte, dentro. Fatto della delusione di scoprire che il marito non era come aveva immaginato -il divario tra il pensiero della realtà e la realtà stessa è qualcosa che ricorre nelle pagine e nelle situazioni, ed è il divario tra i propri desideri, le proprie speranze e ciò che la vita invece offre.
Fatto della delusione di non poter tramandare le proprie conoscenze, le proprie convinzioni -e in questo modo se stessa- a Lina che, nell'andarsene, l’ha tradita tradendo anche se stessa.
Perché Lina, fuggita senza spiegazioni, voleva sentirsi estranea, o diventarlo rispetto a quella vita che significa accettare, restando. Accettare la vita e accettare se stessi. Non a caso l’incapacità a essere, a trovarsi è una chiave di lettura che si può applicare a questo libro. Così come il concetto di “formazione”, inteso forse come responsabilità verso qualcun altro e speranza di sopravvivere senza doversi rifugiare in una rassegnata passività che corroda giorno dopo giorno. E la fuga, altro denominatore comune, poiché tutti i personaggi fuggono, in un modo o nell’altro. Una fuga che spesso equivale a spostare sé da una parte all’altra, più che a una ricerca, come se il sé sfuggisse a sé .
Stando sul bordo del canestro, questo libro ha oscillato verso l’interno per la costruzione complessa -impossibile sintetizzarlo. E' narrazione, saggio, cammino- e per i personaggi che si caratterizzano per il loro stesso essere, per quell’esistenza “fisica” sulla quale Scibona insiste, dando voce al bisogno di “concretizzare” se stessi, e per i loro pensieri; per il loro percorso e il loro animo.
Personaggi che aggiungono forse qualcosa di diverso alla figura di chi sia sradicato da un luogo e da un tempo, di chi sia lontano dalla propria storia precedente, di chi viva a Elephant Park o in qualunque altra parte degli Stati Uniti ma abbia un nome italiano e serbi nella memoria la traccia -lieve o profonda che sia- di una lingua e di un paese che rappresentano l’origine, la radice, il passato, la propria storia e, attraverso questa, la determinazione di sé e della propria identità.
Poteva essere un capolavoro, ma la palla è caduta all’esterno, alla fine.
Non è brutto La fine, anzi. Piacerà. Potrebbe anche essere destinato a rimanere, nel tempo. Però non ha fatto vibrare quelle corde emozionali che sono l’unica misura capace di stabilire se quel libro entrerà o meno dentro il mio cuore. Diversi dubbi, poi, sono spuntati ogni tanto dalle pagine. Forse dovevo leggerlo da un punto di vista più americano, non so… Io, quando trovo che un albero è un “marchingegno complicato per catturare la luce” mi sento inadeguata. Ma d’altra parte gli aggettivi, le metafore, le immagini sono spesso qualcosa di inconsueto in questo libro: comignoli scoliotici, case senza segno di vita senziente, usci senza porta, vespe che venivano lasciate cadere nella tasca della gonna della tonaca…
L’ ”anatocismo” di pagina 37 e i “trogloditi” di pagina 41 mi sono sembrati piuttosto all’avanguardia per gli inizi degli anni Cinquanta, pur trattandosi dell’America, però.
“E’ fatto all’apposta” a pagina 61 e, sempre nella stessa pagina: “Furono raggiunti da altri uomini e donne di colore, non molti, più o meno sette.” hanno determinato qualche perplessità.
Poi… Quando trovo che si deve cucire una giacca con un arcolaio (pag. 194) rimango interdetta. Quando sento di “spigole” (pag. 237) che si lasciano nella capanna dopo aver mietuto del frumento fin dal sorgere del sole non capisco.
E il “cesto” della spazzatura? Sarà di vimini?
A pagina 317 ho letto: ”Espirò, a lungo e profondamente, le labbra chiuse, e gli spiriti, destandosi dal profondo dei suoi polmoni, spinsero il bolo di formaggio che aveva in gola fino ai seni nasali, che a loro volta percepirono un aroma tenue e meraviglioso, vivo.” e, nuovamente, mi sono chiesta: E’ Scibona o è Ambrosi? Peccato non poter leggere in lingua originale… Farebbe davvero la differenza, in questo caso.
Qualche cinguettio (le forbici del barbiere, la radio nel salotto), molti proiettili vaganti, asserzioni indiscutibili, del tipo: La morte è la morte. Era stato chi era stato.
Una processione che lascia il segno, oltre che la scia della spazzatura. Bella, però. Suggestiva. Molto americana.
La necessità di una mappa a pagina 345, dove mi sono persa in un punto imprecisato tra la Ventiseiesima, la Sedicesima, l’Undicesima e la Ventiduesima Avenue…
La rete ferroviaria italiana nel 1879 cercata così, per curiosità. Documentatissimo, Scibona. Dieci anni per scrivere questo libro. Paragonato a Greene e a Bellow, a quanto sento. Una cura estrema per ogni singola parola, per ogni virgola. E’ vero -lo si avverte. La tenacia, la bravura.
Ammetto di sentirmi inadeguata al momento di valutare in termini di stelle, stavolta. Quattro, oltretutto faticose in certi momenti, possono essere troppo o troppo poco. Specialmente se un ulteriore dubbio mi attraversa la mente: saranno per Scibona o per Ambrosi?
Uff, poteva cader dentro però, quella palla...
Prolisso.
Pubblicato all'età di trentatré anni dopo una lunga gestazione, segna il suo esordio da romanziere.
Forse poi, dandosi prevalentemente ai racconti, ha superato i pruriti iperbolici e l'acerbità di giovin virgulto della narrativa, accogliendo il saggio suggerimento che sottrarre è quasi sempre una buona idea. Però questo non lo so e, probabilmente, non lo scoprirò mai.
Ho ancora qualcosina da rimproverare a Scibona, ovvero lo scollamento e, a tratti, la dispersività della trama nello snocciolare questa storia di emigranti italoamericani di metà Novecento: troppa carne al fuoco che, anche se di apprezzabile qualità, non mi ha intrattenuta né convinta granché.
A suo favore vanno soltanto l'incedere non prevedibile, la prosa solida e una certa, discreta creatività.
Quindi, tirando le somme, nulla di imperdibile.
Ho avuto la fortuna di conoscere e intervistare l'autore, un americano che è stato infilato dal New Yorker tra i migliori 20 scrittori under 40, per quel che valgono le liste, è stato candidato al National Book Award, per quel che valgono i premi, ha scritto un libro meraviglioso, per quel che vale il mio giudizio.
Però c’è questa cosa che un valore indubbio ce l’ha: Scibona è una persona splendida, di una gentilezza, di una disponibilità, di una sensibilità che, a guardare il panorama degli scrittori nostrani, non ci si aspetterebbe da un americano che è stato infilato dal New Yorker tra i migliori 20 scrittori under 40, è stato candidato al National Book Award, ha scritto un libro meraviglioso.
Del romanzo, mi ha detto, preferisce che non si racconti nulla: rifacendosi alla teoria platonica del linguaggio, descrivere, riassumere, condensare, è un po’ una corruzione dell’essenza del racconto (un piccolo esempio di questa attenzione: Scibona descrive e muove i suoi personaggi per qualche pagina prima di dirne il nome). E poi, in fondo, senza grandi affanni filosofici, semplicemente non c’è motivo di levare a un lettore il gusto di scoprire l’incanto di queste storie.