Carlo Lorenzini detto Collodi era un ubriacone. Morì davanti alla porta di casa, dopo aver fatto il pieno di alcool, durante una notte piovosa. Se non fu un grand'uomo, fu un narratore eccelso, l'autore di uno dei libri più importanti della letteratura mondiale. Eppure, quando incontro i ragazzi nelle scuole e chiedo loro chi abbia letto la versione integrale di "Pinocchio ", sono rari coloro che alzano la mano. Tuttalpiù conoscono la versione edulcorata di Disney, somministrata loro durante l'infanzia per mezzo di uno schermo.
È una perdita enorme per i giovani. Il racconto rivela immagini e archetipi profondamente innestati nell'inconscio. Simboli antichi reiterati nelle fiabe e perfino nella letteratura contemporanea: la fame, corporea e spirituale, la paura, la perdita, la lotta, la morte. E poi gli animali soccorrevoli e quelli subdoli e ingannatori: grilli, pulcini, lumache, gatti, volpi, faine, pappagalli, scimmioni, cani, coniglietti neri, colombi, asini, marmottine, pescecani, tutti dotati di voce e di parola, meno l'ultimo, il più tremendo, il leviatano che lo inghiotte. E poi la magia e i miracoli, la fata di colore celeste, anzi turchino.
La fata appare come bambina, come donna, come capretta su uno scoglio, metamorfosi che rimandano a Ovidio e ai miti da lui messi in poesia.
Pinocchio vaga per il mondo alla ricerca di se stesso. Anche lui ha bisogno di metamorfosi. In fondo, è solo un bambino pieno di buoni propositi, curioso, ma ondivago, facile da irretire perché colmo di sogni. Un bambino che desidera la ricchezza, ma non per sé, per il babbo. Vuole comprargli una giacca di raro splendore, vuole ripagarlo perché ha venduto l'indumento per acquistare un abbeccedario. Un bambino di legno, privo di furbizia, dolcissimo. Ha una veste di carta, un berretto di mollica e, nella povera casa presto abbandonata, una pentola piena di cibo che fuma sempre. Ma la pentola è dipinta sul muro del focolare.
Il racconto uscì a puntate sul Giornalino e Collodi lo fece finire male, malissimo: il burattino morì impiccato alla quercia grande. Ma i lettori non ci stavano, eh no! Tempestarono la redazione di lettere finché Collodi, a corto di denaro, non si decise a riprendere la penna in mano e a continuare la storia.
E la coscienza-grillo di Pinocchio risorse, dapprima come minuscolo fantasma nella notte più nera, poi come abitante e padrone della capannuccia dove avviene il riscatto finale. Un riscatto triste invero perché il burattino giace inanimato su una sedia e al suo posto c'è un bambino vero, un bambino noioso e omologato come tanti. Ogni capolavoro, quando finisce, lascia nel lettore una nostalgia terribile.
A furia di sentirne parlare, mi son voluto concedere un audiolibro. Mi son documentato sulle pubblicazioni libere e ho scelto Pinocchio. Io e il burattino, dopo esserci ignorati per 35 anni, cominciammo a considerarci grazie ai miei figli e agli episodi (visti in DVD) di Comencini. Manfredi in quegli episodi fa una recitazione monstre e anche Balestri, Ingrassia e Franchi ne escono alla grandissima. Dovessi incidere un’audio recensione a questo punto in sottofondo sentireste già
http://www.youtube.com/watch?v=y8Y4x58C_wE
Ne userei dei brani fra un capoverso è l’altro. Gli audiolibri hanno delle potenzialità, non mi stupirei sei in futuro acquisissero cospicue fette di mercato, qualora vengano fatti bene, non sono emulabili. Che esperienza è ascoltare anziché leggere? È un’esperienza particolare, non si torna indietro, si subisce l’intonazione, non si sottolinea, talvolta ci si distrae, altre volte si vorrebbe incalzare colui che legge al posto nostro, renderlo più rapido. L’opera deve molto alla sua capacità di recitazione. Credo che ascoltare delle azioni anziché dei monologhi, avvantaggi, mi sgomenta l’idea audio di Proust o di Virginia Woolf. Ho ascoltato Pinocchio sulla ciclette, so che sarebbe stato ottimale guidando, magari in autostrada.
Ho scoperto che debbo a Pinocchio alcune espressioni appartenute al lessico della mia famiglia, ho scoperto che alcune scene del Pinocchio di Benigni non erano arbitrarie come immaginavo, bensì fedeli alla narrazione. Quello che non ho scoperto (lo sapevo già) è che si tratta di un libro con decine di spunti di riflessione, colmo di una vetusta e bistrattata “contadinità”. È un libro di esperienze, un libro di pensieri scacciati, i personaggi (Pinocchio su tutti) sono ciò che fanno, solo le azioni li delineano. L’intento pedagogico di Collodi centotrenta anni più tardi potrebbe far sorridere, non fosse che alcune situazioni sono così paradigmatiche da ripetersi all’infinito. La truffa ordita dal gatto e la volpe, per esempio, mirava agli zecchini; nella sua versione più recente essi sono diventati obbligazioni subordinate, prima ancora erano stati pesos, rend, gestioni azionarie… prossimamente saranno bitcoin, o chissà cos’altro. Il gatto e la volpe erano a conoscenza del tratto che affratella maggiormente gli uomini: l’avidità. Collodi passa tutto il romanzo ad esaltare l’uso di ciò che lui ritiene il siero contro questo veleno, ovvero l’altruismo. Un gesto compassionevole riabilita immediatamente i suoi personaggi. Pinocchio, il bighellone che si si rivende l’abecedario il primo giorno di scuola, che scaglia un martello contro chi cerca di dargli dei consigli avveduti, è un burattino di buon cuore e questo per Collodi conta più di tutto il resto.
Che fine può fare un bambino del genere in questo mondo? Probabilmente finirà in bocca ad un pescecane (è ciò che successe anche a Pinocchio, non fu una balena ad inghiottirlo). Un uomo solo, vedovo, (così povero che il fuoco nel suo camino è disegnato) desidera a tal punto un figlio da costruirlo di legno. Suo figlio (come spesso accade) venuto alla luce, ne tradisce le aspettative, ma…
ma… leggetelo, se sarete fortunati come lo sono stato io, in alcuni punti riascolterete le espressioni di chi vi amò, come solo un figlio si può amare.