Un romanzo appassionato, uno sfogo dell’anima, una scrittura impetuosa e avvincente: il ritratto di un padre amatissimo dalla bambina. Ecco quanto ho trovato in questa vecchia edizione Mondadori scelta a Lo Quarter ad Alghero e catalogata come “scarto editoriale” dalla “Associazione Volontari per la Biblioteca San Michele”. Un regalo che mi affretto a restituire perché altri e altre possano godere di questa lettura.
Biosognerebbe rileggere queste vecchie scrittrici italiane del Novecento come Natalia Ginzburg, Alba de Cespedes, Maria Bellonci, Anna Banti e altre, oggi un po’ dimenticate, mi suggeriva un’amica: sono bravissime.
In questo romanzo-memoria la figura di Giuseppe Manzini emerge davvero “in piedi”: pacato, bello, elegante nel suo vecchio cappotto liso e quasi circonfuso da un’aureola che lo nobilita, l’ideale dell’anarchia. Così almeno lo vedeva la piccola Gianna, combattuta tra la ottusa educazione perbenista della famiglia materna e l’eroica immagine paterna.
Finché arrivano altre lusinghe della condizione borghese: gli abiti eleganti, gli studi a Firenze, la vita culturale e artistica della città. Qui il ricordo si colora di senso di colpa per aver “tradito” il padre amato.
E la scrittura di questo libro è un atto di riparazione.
L’autrice parla del padre Giuseppe Manzini, dell’orgoglio per lui nell’infanzia e il rimorso per la lontananza da lui negli anni successivi. Del padre, anarchico condannato al confino dopo l’avvento del fascismo, non ricordavo nulla. Ricordavo invece quello che allora chiamavo il “brano della formichina”. La famiglia è a tavola per cena, la conversazione tra i parenti è accesa e non esclude commenti molto duri sul padre della scrittrice mentre lei, bambina, ascolta, soffre e resiste, cercando coraggio e forza in una formichina che si sta arrampicando su un muro della stanza.
“Più sono piccine le cose, più mi piacciono: forse anche perché ho l’ambizione di vederle quando nessuno le distingue. […] E adesso mi compiaccio di scorgere una minuscola formica che raccoglie tutte le sue forze per scalare la bianca parete granulosa, davanti a me. Sei zampine che palpano, che s’attaccano, forse a ventosa. Che ostinazione solitaria e senza collera. Io sono con lei sul medesimo deserto. Intorno a me non si parla, si bisbiglia, con pause così lunghe e assolute che anche il traffico d’un tarlo ce la farebbe a imporsi. […] Non mi badano; tuttavia ora parlano con voce chiara. […] Di me non si preoccupano, perché, attenta come sono a guardare la parete, mi credono distratta. Tutt’altro, so che resisterò, che sarò vittoriosa, perché la mia microscopica formica ad ogni istante guadagna terreno. Che sia intelligente? Indaga, risolve problemi difficili. Pare che torni indietro, che rinunci; e invece aggira ostacoli. Ecco ha trovato il sentiero giusto, e lo percorre con padronanza incredibile, data la sua piccolezza. Padronanza non è la parola esatta, perché lei manca di orgoglio. Una calma ubbidienza, piuttosto. Servile. E il padrone, il padrone dov’è? Certo, da lontano la comanda chi sa con che cosa, probabilmente con un odore; e lei ubbidisce. Può anche darsi che si tratti d’una strada percorsa da una che l’ha preceduta. Guai se ne perdesse le tracce, poiché quella, la battistrada, è senza dubbio arrivata, recando un granellino che neanche i miei occhiacci avrebbero potuto scorgere. […] Faccio rumore, tento di distrarmi per ascoltare il meno possibile. […] Che male, che strano male. L’odio ha un odore. Lo sento. Prosciuga le labbra e la gola. A respirarlo avvelena. […] Ho l’impressione di affondare e che mi manchi il respiro. Può aiutarmi soltanto la mia formica, lassù. E dunque: chissà quanti argini esistono di qua e di là della sua nuova direzione. Sarà un panorama variatissimo, tutto bianche scogliere; ma lei non vuole avvedersene: ha una sola idea in testa: arrivare. Forse si tratta di una missione, qualcosa come un ordine che non si decifra, che non si dirige personalmente. Ritmo, tempo, misure, sono sciocchezze di fronte all’eternità del motore che la sospinge, il motore dissimulato nel suo corpo, e attaccato a un altro motore e a un altro ancora. Invece il mio cuore rimane vincolato alla gioia e allo strazio delle mie immagini, delle parole che ora mi lapidano, di quelle che mi risolleveranno domani; alla paura del giorno che viene o delle settimane che verranno. […] Cammina che cammina, col suo invisibile fardello ce la farà; e io con lei. Se abbasso di tanto in tanto gli occhi, è solo per nasconderla e difenderla: ché seguendo il mio sguardo non abbiano a scorgerla anche loro, gente di vista corta. […] Dopo l’incontro con Malatesta, ero stata fiera, ma anche scioccamente vanitosa. […] Vergogna. Rientro nelle spalle. Alla mia formica non poteva capitare nulla di simile, mai. Ha da fare, lei. Fissa al suo compito, ignora se stessa. È soltanto disciplina e ostinazione. La sua sproporzionata fatica, proprio in quanto fuor di misura, poteva inebriarla; ma tutto ciò riguardava la sua missione: non lei, che con un vitino così sottile e articolatissimo, altro che d’esser vanesia avrebbe avuto motivo. […] Di colpo la fronte immensa di mio padre e la sua statura dominarono il salotto. Il silenzio congelava ogni gesto. Di certo anche il respiro. E dovette obnubilare il mio sguardo. Non ritrovo più la mia formica […]. Io sono sul medesimo deserto. Anch’io mi arrampico senza vedere veramente a che cosa vado incontro. Ma lei è difesa dalla sua cecità. Perché non sa, perché è soltanto obbedienza, può sospingersi con una forza abominevole, gettando avanti d’un millimetro il corpo leggero e tuttavia così pesante. Invece io, i miei nemici li vedo, li sento, sento l’odore del loro odio, sento il peso della loro collera; un nodo duro, così duro da mozzare il fiato. Comunque sia, lei mi aiuta a resistere. Io sono all’erta. Ed eccola che si riaffaccia oltre una scrostatura del muro. […] La mamma non mi guarda; io non la guardo. Ma è lo stesso. Le nostre pupille, fisse sul piatto, hanno fatto scintille nel medesimo istante. […] Meglio la pura solitudine del silenzio. Se non fiatassi, potrei andare avanti come la mia formica. Ma dov’è, dove s’è cacciata? Che io non l’abbia perduta, per carità. Dove sei? Aiutami. Eccola. Tanto ha camminato. Lei, un fine lo conosce. Si muove su una traccia fatta, forse, di escrementi minutissimi, lasciati da quella che l’ha preceduta. Lei deve arrivare; e lo sa. Ma io? Ma io? Invidio la sua testa nera con le antenne che tremano, lo slancio possente che la inarca, sempre uguale, sempre costante. Io al contrario, ignoro dove dovrei arrivare. […] L’umiliazione… l’umiliazione…: come ha detto il babbo? Toglie l’altezza. […] E invece, no: saprò rivalermi, io. […] Il babbo mi ride dentro, con quella sua giocondità rappresa, derubata di ogni abbandono, diffidata. Derubata: non da lui stesso sottratta, e sarebbe stato naturale, a tutti noi, indegni d’una tal moneta d’oro zecchino fra quelle, false, del nostro miserabile umano commercio. Una giocondità innocente, perseguitata fino alla consunzione. Ma col suo sguardo non ce l’avevano potuta. Il suo sguardo continuava a essere un’azione: suscitava il futuro. […] Ma che significa? Che resisto, che mi dibatto. Lo sforzo non ha a che fare con la bontà; e spesso è brutto; àltera, tradisce perfino i battiti del cuore: certo va contro la spontaneità. […] Invano cerco le parole di mio padre. Invano gliele chiedo. E quella seguita a durar fatica, a gonfiarsi di fatica. Mi duole il ventre. Dio mio, che non debba alzarmi da tavola. Trattengo il respiro. Fermo il dolore contraendomi. Dico di no al dolore. […] Finalmente un’infida pietà di me mi aggredisce. Mi tocco le guance. Di che colore saranno? Tutto ormai mi colpisce, tutto mi umilia, tutto mi getta faccia a terra. Che nodo di collera intorno a me e al babbo. Io voglio invece un po’ di sorriso. Su un po’ di sorriso posso far leva. Una domanda mi ossessiona. E dopo? Il dopo si allunga come una nuvola d’inchiostro. Che cosa altro potranno dire? Mi hanno messo mille spine nel cuore. Ho male. Un male che non guarirà mai. […] Ripiglio fiato. La mia spina dorsale si rinsalda. Può tanto l’orgoglio. […] Cerco la formica sulla parete. Non c’è più. È in salvo. […] È arrivata dove voleva. Tutta la mia sicurezza, lo so, si concentra nel mio sguardo: glie l’ho data. E, guardandola, persuasa di vederla io sola, co’ miei occhi d’uccellaccio, o di lince (senza dubbio, occhi animali), l’ho protetta. Come lo sguardo del babbo sfida la distanza e il tempo, io vedo in dettaglio, definisco spigoli e angoli, arrotondo curve, colorisco (quel nero minuscolo insetto sulla parete bianca) inseguo movimenti minimi, trovo ritmi, li incateno (quelle zampine filiformi, quelle antenne tremanti…).”
"26 ottobre 2024 scrivo alle mie sorelle: Quasi quaranta anni dalla morte di papà. Ieri era il suo giorno natale e per tutto il giorno ho pensato a scrivere su di lui ma non aveva senso con estranei. Ancora oggi il suo sorriso i suoi modi la sua voce quasi ogni giorno entrano nelle mie giornate. Ormai non mi confronto quasi più con lui per consigli, le scelte sono fatte , ma rivedo la sua approvazione o disapprovazione, il suo ritrarsi rattristato e ferito dai dissidi, dalla vita quotidiana. Che non è stata generosa con lui. Ma ha molto amato le sue figlie e in questo è stato fortunato: nulla è andato perduto. Partecipa ancora della mia vita.
Ecco volevo dirvelo."
il padre di Gianna Manzini è una figura indimenticabile per dirittura morale e coerenza di vita, e la passione con cui lei ne parla fa ammenda delle distrazioni in vita.
Però la scrittura non l'ho amata, ridondante e inutilmente descrittiva, fino alla noia.