Duncan nel bardo

“A volte il mondo sembra una scacchiera dove i pezzi si muovono da soli. Non sono mai certo di quale riquadro occupare.”
 
    “Questo è l’inferno”, ripete un paio di volte Lanark nel corso del romanzo, e la mia memoria letteraria non ha potuto fare a meno di andare alle analoghe esclamazioni proferite da Matern in “Anni di cani” di Gunter Grass. Ma se in quest’ultimo libro l’espressione veniva pronunciata durante la visita all’inquietante fabbrica di spaventapasseri automatizzati messa in piedi dall’amico Amsel nelle viscere di una miniera, nell’opera di Alastair Gray essa è una vera e propria tautologia, perché quello in cui vive Lanark è effettivamente, inequivocabilmente una sorta di aldilà. Fin dalle prime pagine, quando Lanark arriva in una città sconosciuta, sul vagone di un treno dove viaggia da solo, senza nome (Lanark è infatti preso da una foto pubblicitaria intravista nello scompartimento), senza documenti e apparentemente senza passato, come un novello Josef K., si capisce infatti che il protagonista è approdato in una specie di bardo dove le capacità sensoriali e la coscienza risultano sensibilmente attutite e alterate. L’impatto del lettore con Unthank (questo è il nome del misterioso luogo) è spiazzante, in quanto l’immaginazione di Gray dà vita a pagine di uno sfrenato surrealismo. In questo paese non c’è la luce del sole, molte persone scompaiono in concomitanza con il venir meno della corrente elettrica e una strana malattia trasforma progressivamente uomini e donne in ributtanti lucertoloni. Quando poi lo stesso Lanark viene inghiottito da una “bocca” apertasi sulla superficie terrestre e si ritrova in uno strano ospedale, che fa finta di curare i malati ma in realtà li sopprime scientemente per ricavarne cibo ed energia, il fantastico si trasforma in distopia, e il discorso si fa apertamente politico. L’istituto, la cui avidità fuori controllo si espande come un cancro (“Nei miei incubi c’è un mondo in cui nulla esiste al di fuori dei nostri corridoi e tutti sono membri del suo personale”) richiama infatti tutte quelle istituzioni, non necessariamente totalitarie, che hanno proliferato nel ‘900 e che, con il loro cinismo, il loro fascino ambiguo e populista e i loro metodi subdolamente antidemocratici, hanno assoggettato alle logiche del potere e del capitale intere popolazioni. A Unthank ci sono sì gli uffici della previdenza sociale che elargiscono sussidi e assegnano alloggi popolari, ma la gente vive ugualmente in uno stato di irrimediabile indigenza, esposta alle speculazioni dei potenti, alla pervasività dei controlli di polizia, all’obnubilamento della pubblicità e all’inquinamento ambientale.
    Alla luce di quanto detto sopra, è per il lettore una autentica sorpresa quando di colpo, nella seconda parte (che è poi a tutti gli effetti la prima, in quanto i quattro libri seguono la numerazione 3-1-2-4), la narrazione torna ad essere classica, e il romanzo si trasforma nel racconto semi-autobiografico di una giovinezza, dallo scoppio della seconda guerra mondiale alla fine degli anni Cinquanta. Attraversando gli anni del conflitto e del dopoguerra facciamo la conoscenza di Duncan Thaw, un ragazzo di Glasgow che, tra crisi di asma, adolescenziale introversione e i primi goffi approcci con l’altro sesso, decide di frequentare una scuola d’arte e di diventare un pittore. Quello che sconcerta di Duncan è la sua mancanza di emozioni, la sua anedonia. “Se la mamma morisse – pensa durante la malattia della madre -, onestamente non credo che proverei molto… Eppure, quando leggevo una poesia di Poe l’altra settimana… ho provato un senso molto acuto di perdita e ho versato sei lacrime, quattro dall’occhio sinistro, due dal destro”; e quando, alla fine, si lascia andare finalmente al pianto, “le lacrime non erano particolarmente passionali, solo una piccola perdita dagli occhi”. La frustrazione nei rapporti familiari e sociali viene sublimata nel rapporto con l’arte, che Duncan affronta con maniacale perfezionismo e totalizzante abnegazione. Quando accetta l’incarico di affrescare le pareti di una chiesa con le scene della Genesi, un lavoro ambiziosissimo ma probabilmente superiore alle sue forze, la sua alienazione si trasforma progressivamente in follia. Il murale di Thaw si rivela infatti un’impresa che finisce per assorbire ogni sua energia e pian piano diventa una sorta di realtà parallela in cui rifugiarsi per fuggire dal mondo vero, quello in cui non è mai riuscito a integrarsi veramente. In queste splendide pagine Gray descrive la estenuante ricerca di perfezione da parte dell’artista e la sua perpetua insoddisfazione di fronte all’inevitabile imperfezione della sua opera. “Lanark” sembra avere come fonte di ispirazione il Dedalus del “Ritratto di un artista da giovane”, solo che qui, a differenza che nel romanzo di Joyce, il destino del protagonista finisce in tragedia, forse per una sorta di ineluttabile necessità narrativa o forse semplicemente perché – come confida il narratore nell’Epilogo – “i fallimenti piacciono” ai lettori.
    Lanark è il novello Duncan nel mondo infero di Unthank. A fare da trait d’union tra i due c’è la malattia (l’asma per l’uno, la dragonite per l’altro), come se l’infermità fisica fosse l’epitome inevitabile del malessere esistenziale dell’individuo. Ma anche se i toni sono diversissimi tra le due parti del libro (realistica la prima, fantastica la seconda), è come se i due mondi fossero divisi da una sottilissima membrana, e le fantasie, gli incubi e i deliri di Duncan fossero già in qualche modo un’anticipazione dell’universo ctonio di Lanark. La stessa Unthank è una Glasgow rovesciata, dove, a parte alcuni aspetti eclatantemente surreali (ad esempio, il tempo che accelera o rallenta non appena si esce dalla città), tra le due non c’è tutto sommato una grande differenza: mentre la città di Duncan è il teatro di cui Gray si serve per descrivere l’alienazione dell’individuo, insofferente delle regole imposte dalla famiglia, dalla religione e dalla società, il mondo di Unthank è il pretesto per svelare le profonde contraddizioni del moderno sistema capitalistico, dove le istituzioni politiche, la burocrazia e l’esercito sono al servizio dell’onnipotenza del Capitale. In entrambi i casi emerge prepotente l’estremo pessimismo dell’autore scozzese, il quale nella figura di Duncan-Lanark mette in scena un anti-eroe privo di qualsiasi grandezza e carisma, fatalmente destinato al fallimento come artista, come amante, come politico, e in definitiva come uomo, e la cui morte, che l’autore nelle ultime pagine gli preannuncia per mezzo di un pietoso messaggero, è alla fine quasi un sollievo, una liberazione.
    “Lanark” è un libro davvero strano, capace di sedurre con improvvise, geniali epifanie, e subito dopo lasciare perplessi per la sua ucronia ingenuamente naif. Strutturalmente, si diverte a mescolare la successione dei capitoli (oltre al già citato ordinamento non cronologico dei quattro libri, va detto che il prologo viene dopo la prima parte e che l’epilogo è inopinatamente seguito da altri quattro capitoli), anche se in fondo il secondo e il terzo libro non sono altro che una specie di lunga analessi, un accorgimento narrativo non così inconsueto nella letteratura moderna. “Lanark” utilizza poi alcuni espedienti tipici del postmodernismo, come quello di far incontrare pirandellianamente il personaggio con il suo autore (anche se è curioso che il protagonista sembra sapere addirittura di più del suo creatore) o di riempire un intero capitolo di riferimenti bibliografici a cui lo scrittore ammette di essersi, più o meno indirettamente, ispirato. “Lanark” è una sorta di crocevia dove si incontrano il James Joyce del “Ritratto dell’artista da giovane”, il Kafka del “Castello e di “America” e il John Barth di “Giles ragazzo capra”, e da cui si dipartono una miriade di influenze letterarie, dal Volodine di “Terminus radioso” al Cartarescu di “Abbacinante”. La stessa Glasgow di Gray è un po’ come la Bucarest dell’autore romeno: una città grigia, degradata, in fatale dissolvimento, eppure caratterizzata da un arcano, misterioso fascino, lo stesso fascino che, lo si voglia o no, trapela da questo libro psichedelico, bizzarro e imperfetto, ma indubitabilmente originale e impetuosamente creativo.

Mar 27, 2025, 11:32 AM
L'arte è un atto di immenso amore...

L'arte è un atto di immenso amore, ci vuole molto coraggio per consegnarla alla crudeltà del mondo" affermò Mark Rothko per definire il suo essere pittore. Bene, uso queste parole per tentare di comunicare quanto quest'opera mi abbia trasmesso. Pura vertigine.

Apr 24, 2020, 12:20 PM

Epopea molto decantata, ricchissima di idee suggestive in chiave di fantascienza sociologica, ma - superato il primo libro - la narrazione diventa barocca e si incaglia qua e là.

Mar 3, 2018, 8:13 PM