Con Amatka, la scrittrice svedese Karin Tidbeck ci conduce nei meandri di un’accattivante opera distopica, con qualche elemento fantascientifico e surreale.
Il regime che controlla la società di Amatka e delle altre colonie umane, site in una misteriosa dimensione, basa il proprio potere sul controllo del linguaggio, della parola e – per estensione – di tutto ciò che alle parole si lega, non ultima la libertà di espressione. Ciò accade poiché, nel mondo ideato dalla Tidbeck, la materia rischia costantemente il disfacimento: tutto può diventare informe poltiglia, se i nomi delle cose non vengono pronunciati diverse volte, durante il giorno. Situazione che ha giustificato l’instaurarsi di un governo forte, ma che non potrà giustificare per sempre i suoi abusi di potere e le ingiustizie.
E per quest’idea credo che all’autrice vadano fatti i complimenti, perché non esisteva modo più diretto e sagace per mostrare al lettore quanto il controllo della realtà e della sfera personale di un individuo, da parte di un regime oppressivo, parta proprio dal controllo dell’informazione e della comunicazione, della retorica con cui una società racconta se stessa e il mondo a cui appartiene.
Ma non è questa una peculiarità dei soli regimi autoritari o totalitari. Quello di cercare di appropriarsi esclusivamente della narrazione del reale è un comune difetto politico dei partiti, che troppo spesso tendono ad appiattire situazioni che, invece, meriterebbero di essere approfondite e riconosciute nella loro varietà.
Pretendere di rendere statico ciò che è mutabile non porta ad altro che alla distruzione di ciò che non è malleabile. E’ questa la legge dell’evoluzione e vale anche politicamente. Che sia la materia di Amatka e delle altre colonie, o che sia lo spirito umano, non si può imbrigliare ciò che è libero, senza doverne pagare, prima o poi, delle conseguenze. Arrivate al massimo della saturazione, le vittime infelici di leggi irrazionali si ribellano sempre.
E qui – in questo romanzo – non si fa eccezione. La protagonista, Vanja Essre 2 di Brilars, giunta nella colonia che dà il nome al libro, in qualità di ricercatrice di mercato per un’azienda privata, si ritroverà ad essere la pedina più importante di una rivoluzione che cambierà per sempre il modo di vivere dell’umanità.
La Tidbeck ha una prosa semplice e gradevole, si legge con molto piacere e – soprattutto – è in grado di costruire una tensione e un pathos crescenti, fino al climax finale, durante il quale il contesto realistico, oppressivo e ansiolitico descritto lascia spazio ad un delirio di fantasia dalle proporzioni inattese.
Amatka è un’opera che si inserisce, senza sfigurare, nella tradizione iniziata da Noi di Evgenij Zamjatin e 1984 di George Orwell. Lo consiglio davvero, a chi ama e non ama il genere!
idea affascinante, ambiente claustrofobico e senza speranza, conclusione iperbolica... ma manca qualcosa,. vorrebbe essere un'indagine, ma manca la suspense, vorrebbe essere un dramma di un eroe solo braccato, ma manca la totale empatia con il personagigo.
Un buon libro, ma un pò troppo gelido per diventare un capolavoro.
Allora, partiamo da un presupposto: il linguaggio è una roba un botto strana. Cioè, se io dico sedia, non solo voi avete bene in mente l'oggetto di cui sto parlando, ma se vi indico un oggetto che non avete mai visto, magari d'ultimissimo design, e vi dico "sedia", quello, per voi, e per se stessa, diventa una sedia. Prima era una roba informe e sconosciuta. Ma già sto partendo per la tangente. Ok, con calma.
Per un qualche motivo non chiaro (perché non detto, quindi non esistente) l'umanità si è dovuta trasferire in un posto nuovo, forse nello spazio, forse in un'altra dimensione. Qua, tutto è informe e viscido, a meno che non venga plasmato continuamente con la parola. Letteralmente quello che impedisce a una valigia di tornare poltiglia è chiamarla continuamente valigia. Quindi, controllare la parole significa controllare la realtà. Impedirne sia il disfacimento, sia, soprattutto, imbrigliarla in un modo preciso e univoco.
"Amatka" sviluppa il discorso su tre livelli.
1 Il primo livello è quello politico. Ovviamente, il controllo delle parole è strettamente regolato dal governo, fintamente democratico (fintamente perché in fondo non cambia chi governa, comunque l'ordine quello deve restare). E' lui che organizza la realtà affinché abbia un particolare ordine - le colonie, ogni colonia la propria organizzazione. Tutto deve essere preciso e ordinato. Gran parte del tempo viene passato riaffermando continuamente la realtà. Tanto che, in fondo, non esiste realtà al di fuori di quella delle colonie: quando Vanja prende il treno fra le due colonie, l'unica cosa che vede è uno schermo che proietta una finta realtà. Il governo propone anche delle pseudo-scelte, per esempio fra i diversi tipi di sapone, ma com'è piuttosto chiaro a tutti: sempre dello stesso sapone si tratta, e se cambiano gli ingredienti, tanto sempre da lì vengono (la poltiglia che viene plasmata). Insomma, 'sto mondo è un mondo dove l'individuo è completamente imbrigliato, sia a livello esterno della realtà in cui vive, sia le scelte che viene costretto a prendere (una donna a 25 anni deve per forza volere dei figli, no?). Però, ovviamente, non tutti sono soddisfatti di quest'ordine, perché l'ordine è limitazione. Tra questi Vanja che, da piccola impiegata al soldo del governo, si unirà a una specie di fazione distruttrice, portatrice di chaos. La lotta si combatte proprio attraverso le parole che determinano la realtà. Vanja, a una certa, inizia a chiamare le cose, prima con un nome sbagliato, e poi a plasmarle lei stessa. La forza del governo è caduta. Il finale, una specie di roba al limite di ciò che è possibile descrivere, è proprio l'apoteosi di questa liberazione, di questo crollo. Se, infatti, fino a quel momento la prosa di Karin Tidbeck è stata precisa, puntuale, con descrizioni realistiche, il finale è lisergico e inimmaginabile. Proprio perché se il governo, il potere, agisce attraverso il linguaggio, allora la libertà deve andare oltre il linguaggio, oltre le sue limitazioni. (Ora, qua, non credo sia un caso che questa lotta, questa liberazione sia portata avanti da un gruppo di donne, nei confronti di un Potere particolarmente maschile)
2 Il secondo discorso, portato avanti a un livello sottocutaneo, è quello della scrittura. Anna, la donna che guida la fazione di ribelli, è stata la più grande poetessa di Amatka. Le sue poesie erano precise ed estremamente descrittive: la realtà che si consolida attraverso la narrazione. Eppure qualcosa dentro di lei la rende inquieta, le fa desiderare i cambiamenti, qualcosa che vada oltre. Vanja, in diversi punti, specialmente quando capisce di poter plasmare la realtà, deve descrivere la realtà per poterla far apparire (come con la chiave). Ed è questo che fa la scrittura, no? Un mondo che non esiste, che è una poltiglia, anche meno, che viene plasmato da chi scrive. Ci sta un esempio bellissimo, quando le lacrime anziché essere chiamate lacrime vengono descritte come rivoli di acqua salata che colano lungo le guance, e soltanto successivamente gli viene dato il nome di lacrime. E' questo, quindi, che fa la scrittura: fa apparire le cose che non esistono. Gli dà un'esistenza.
3 Ora, non voglio sostenere che la realtà non esista perché insomma un pugno nel costato è sempre un'ottima dimostrazione che la realtà esiste. Ma è anche vero che la realtà è comunque determinata da noi - e noi dalla società, e la società da noi, e la società dalla realtà, e così via perché le robe sono complesse e non uno schemino tipo circuito elettrico. Comunque, quello che voglio dire è che le parole che usiamo, che diciamo, sono le parole che determinano la nostra realtà, che a diverse parole, oh, magari non scomparirebbe, ma sarebbe comunque completamente diversa (che poi comunque il linguaggio sia implicitamente legato alla realtà è un altro discorso). Per tornare al discorso di prima della sedia, se io di un oggetto sconosciuto anziché sedia vi dico fermaporte, quello non è più una sedia, ma un fermaporte. Quindi, se magari Vanja si ripete, e le viene continuamente ripetuto, che è inutile, che è monca, che è sbagliata nei suoi desideri e nelle sue voglie, allora lei si convincerà di essere monca, sbagliata, che è normale che tutti si stancano di lei e che deluderà chiunque. "Amatka", quindi, oltre a un libro politico e sulla scrittura, è anche un libro intimo, sulla liberazione di una donna dei propri limiti. A un prezzo altissimo, sia chiaro, ma che la renderà praticamente tutto. Un qualcosa di impossibile da descrivere. Un qualcosa che va oltre il linguaggio. Perché, beh, le persone vanno oltre il linguaggio.