Questo romanzo, pubblicato a puntate nel 1887 e in volume nel 1888, è considerato il primo noir italiano, una sorta di delitto e castigo partenopeo, ed è il lavoro più famoso di Emilio De Marchi.
La storia: il barone Carlo Coriolano di Santafusca, nobile sfaccendato e pieno di debiti, uccide e deruba, nella propria villa solitaria di campagna, don Cirillo, il prete usuraio al quale deve del denaro e dal quale è minacciato di scandalo. Sembra un delitto perfetto, ma la coda del diavolo prende le sembianze di un cappello, il cappello del prete, appunto, oggetto apparentemente trascurabile, e trascurato dall'assassino, che diventerà nell'ingranaggio narrativo, perfettamente congegnato e ricco di colpi di scena, lo strumento del suo castigo.
Romanzo, originale per l'epoca, dallo stile agile e moderno, può essere definito un giallo psicologico, notevole la descrizione delle ossessioni e delle angosce del barone, attanagliato dal terrore di essere scoperto, e dall'ansia di recuperare quel cappello, testimone muto, ma eloquente del suo misfatto. Siamo di fronte ad un prodotto di intrattenimento, di alto livello però, di un romanzo che si inserisce meritatamente nella tradizione della grande narrativa europea, conservando tuttavia l'accattivante stile del romanzo d'appendice, capace di tenere il lettore "incollato alle pagine".
Viene considerato un po' come il primo atto di concepimento del noir italiano. Uscì a puntate su un paio di quotidiani nel 1887 e fu un successo clamoroso.
Alle spalle della trama, serrata, con un modernissimo senso dei tempi e degli incastri, c’è il tema del delitto e del castigo, paventato e invocato. Un assassino nichilista e senzadìo che risolve i suoi problemi ammazzando un prete usuraio. E poi precipita, correndo dietro alle sue “sensazioni” e ad un cappello (anzi, due). Inevitabile pensare a Dostoievskij e a Raskolnikov. Tracce e angoli di visuale hanno più di un semplice parallelismo geometrico. Anche nella sostanza, senza stare a fare paragoni irriverenti, la frase “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso” potrebbe tranquillamente essere in epigrafe. De Marchi era un cattolico convinto e implacabilmente conseguente. La sua morale è “Nella nausea del male s'invoca il bene come un porto di rifugio e di riposo. Forse c'è un paradiso terrestre oltre quel porto, ma chi lo nega non lo merita".
Però scrive in modo colorato, sapido, con manzoniana eleganza. E tiene legati con piacere al rigo. Bolchi ne tirò fuori uno sceneggiato televisivo in cui “u prevete” era Franco Sportelli (attore di Eduardo e di Strehler, con una faccia inconfondibile) e” u Barone” Carlo Coriolano di Santafusca era Luigi Vannucchi (il Don Rodrigo dei Promessi sposi dello stesso Bolchi). Roba da teatro-tv di qualità (su youtube c'è).
Per una notte estiva, (ri)lettura di pregio.
Mi sono chiesta se sia lecito assegnare cinque stelle ad un noir, se la pentastellatura non sia una valutazione che compete solo all’alta letteratura, ad un classico o a libri che ci hanno scosso nel profondo per i motivi più disparati e non solo piacevolmente accompagnato per un breve lasso di tempo.
Io credo che nel suo genere questo libro sia meritevolissimo delle 5 stelle.
Si dice che sia il primo noir italiano e questa primogenitura già è degna di nota, è un’opera datata perché scritta nella seconda metà dell’800 e gode pertanto di una prosa un po’ d’antan che rappresenta una denotazione poco frequente per un ipotetico lettore di polizieschi contemporaneo ma elegante e gradevolissima, l’ambientazione è a Napoli e ci si chiede perché uno scrittore ottocentesco, milanese, abbia deciso di collocare la sua vicenda nella città partenopea, non lo sappiamo ma apprezziamo molto.
Abbiamo: un morto non constatato ma presunto, un probabile assassino volatilizzato e un cappello tricorno da prete in luogo di un cadavere, che scompare e ricompare, si sdoppia facendosi beffe di tutti.
Il cappello del prete è il tipo di romanzo nero psicologico che ha la struttura narrativa che più mi piace quando l’antefatto delittuoso è manifesto subito all’inizio (molto alla Simenon), così che il lettore può mettere a lato le proprie velleità investigative e per abbandonarsi nei meandri sinuosi ed intricati della mente del colpevole, vivere insieme a lui i sensi di colpa, le allucinazioni i drammatici quanto inutili ripensamenti per una azione nefanda e irreversibile, aiutarlo a mettere in atto fini accorgimenti per spostare le attenzioni delle indagine da sé verso altro o altri, insomma, quale modo migliore per diventare assassini per un giorno, Raskolnikov a scadenza, e immedesimarsi con una vita nera, piena di scosse e di spaventi, una vita da uomo condannato che non conoscerà mai più il sapore dolce della pace?