Nel 1944, un anno prima di “Uomini e no” di Vittorini, Alberto Vigevani inaugurò il filone, assai fecondo negli anni immediatamente successivi, della letteratura resistenziale. Lo fece pubblicando in Svizzera, dove si era rifugiato e continuava l’attività politica e culturale, “I compagni di settembre”, che oggi la piccola e vivace Endemunde di Andrea Garbarino presenta come il primo romanzo sulla Resistenza. Cronologicamente lo è, senza dubbio, e l’operazione di repêchage della Endemunde è meritoria: ma ci troviamo qui di fronte non tanto a una matrice da cui deriveranno una tendenza e un sottogenere, quanto, direi, a un capostipite destinato per certi versi a rimanere un unicum rispetto agli sviluppi successivi.
Con “I compagni di settembre”, Vigevani, che era già attivo sui giornali e aveva pubblicato un altro romanzo, tentò l’operazione di adeguarsi appieno alla materia trattata e di mettere al servizio della causa partigiana la sua scrittura (“penna e pensiero” accanto all’“azione”, all’“attività eroica della Resistenza italiana”, come ricorda Marco Fumagalli nella Postfazione, citando parole dello stesso Vigevani). Lo fece obbedendo a un’urgenza e forzando un po’ la propria natura di scrittore assorto e contemplativo dei paesaggi e degli infinitesimali moti dell’animo umano – tutte caratteristiche che avrebbe recuperato e affinato nei decenni successivi, in opere più fortunate che grazie a editori illuminati come Sellerio abbiamo potuto continuare a trovare sugli scaffali. Qui, ne “I compagni di settembre”, Vigevani volle essere tutto cose, azioni, concretezza virile: e riuscì a esserlo, nel linguaggio, sottraendo, asciugando, rinunciando alle sfumature del bello stile (“grumi della espressione accartocciata” avrebbe detto Franco Fortini). Per fortuna, però (e perdonatemi quel “per fortuna”), Vigevani non ci riuscì o non volle farlo fino in fondo: il romanzo è intriso di momenti di pura contemplazione del paesaggio, specie crepuscolare e notturna (anche secondo Calvino, nella Prefazione del 1964 a “Il sentiero dei nidi di ragno”, “la Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone”, un paesaggio già romanzesco, già pronto insomma al trasferimento sulla pagina), di sospensione vibrante, di studio circospetto delle intenzioni altrui, di silenzi carichi di nostalgia e sgomento. Sono questi, almeno a mio parere, i momenti più belli – non perché contraddicano l’assunto del romanzo, ma perché fanno sentire la lentezza del tempo dell’attesa di qualcosa che non si sa cosa sia, e colorano molte pagine di un’inquietudine frastornata, molto vera, molto umana, lontana da ogni convenzione eroica dell’epopea contemporanea. In quei momenti Vigevani era già pienamente se stesso, anche se ancora scollato dalla meditazione sulla propria infanzia e dallo studio degli ambienti borghesi o altoborghesi caratteristici delle opere successive. Per gran parte del libro, nelle parole dell’io narrante, pittore che ha lasciato in città moglie e figlio, si sente spasimare questo desiderio di agire, di fidarsi di sconosciuti con cui fare gruppo, di opporsi a un nemico che ancora non si vede e di cui si hanno notizie frammentarie e vaghe: e quando il nemico si palesa, ecco che l’eccitazione momentanea dello scontro si trasforma subito in senso smarrito di precarietà, e l’impulso guerresco diventa dolorosa frustrazione e desiderio di fuga al di là delle montagne (non abbandono, non rotta, ma come un ripiegamento strategico, per quanto amaro, da condividere tra scampati), in territorio svizzero.
Anche questa conclusione, così poco enfatica, ci fa capire che la successiva letteratura resistenziale ha pescato altrove, più che in questo prototipo, i motivi del suo epos, tracciando altri legami con i modelli eroici della tradizione. Italo Calvino, nella già citata Prefazione a “Il sentiero”, ha riletto in chiave omerica l’elaborazione di questo patrimonio di storie, prima spontaneamente orale e solo poi scritta, questa “smania di raccontare” da cui sarebbe scaturita la narrativa partigiana; e ha citato poi, come esponente più alto di quella stagione letteraria, il Fenoglio di “Una questione privata”, romanzo “costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso” e allo stesso tempo carico della furia e della commozione e della verità che solo la realtà può dare. “I compagni di settembre” si può piuttosto accostare al Senofonte dell’“Anabasi”: ce lo suggerisce Vigevani stesso, con un inciso non privo di ironia, verso la fine: “Al mattino levammo il campo, come Senofonte avrebbe scritto da buon storico antico, e partimmo per l’interno del bosco spinti dalla necessità di raggiungere altitudini più remote”.
http://www.cooperativaletteraria.it/index.php/fuoriasse/98-fuoriasse-10/313-fuoriasse-9-ottobre-2014.html
http://www.youblisher.com/p/804398-FuoriAsse-10/
Un libro resistenziale poco noto ma importante per le modalità ed i tempi della sua uscita. Come poco noto è per i giovani (e forse anche i meno giovani) l’autore, Alberto Vigevani. Un poeta (come lo definì Lalla Romano) che ha anche scritto romanzi.
Nato il 1° agosto 1918, sul finire della Guerra, da una famiglia ebrea di origini emiliane ma da tempo trasferitasi a Milano. Fin da giovane predisposto alla letteratura (ed alle arti teatrali) studia a Venezia, scrive recensioni teatrali, si avvicina a Mondadori e Lattuada (tanto che reciterà nel primo film firmato da Monicelli “I ragazzi della via Pal”) e si integra negli ambienti liberali della seconda metà degli anni Trenta, fonda insieme a Treccani la rivista “Corrente”. Colpito dalle leggi razziali si sposta in Francia, per poi tornare negli anni della guerra in Italia, si occupa di librerie, scrive per poi, dopo l’8 settembre riparare in Svizzera con moglie e figlio. In quegli anni scrive anche questo romanzo, su cui torneremo.
Socialista da sempre, nel dopoguerra scrive a lungo sull’Avanti e poi, in tarda età, pubblica elzeviri sui più importanti giornali italiani, diventando una sorta di cantore della vita quotidiana milanese.
Veniamo ora al testo, che in effetti è uno dei primi esempi di “instant book”, cioè di quei libri che si occupano di qualcosa che è appena successo, o sta ancora succedendo. Questo, infatti, è il primo romanzo che si occupa della Resistenza, prima di Calvino, prima di Fenoglio. Un libro quasi in presa diretta. Tanto che, visto Vigevani stare in Svizzera, venne pubblicato da una poco nota casa editrice di Lugano (la “Ghilda del Libro”). Le strane giravolte della storia, ne portarono poi, pochi mesi dopo, ad essere pubblicato in traduzione tedesca da una casa editrice di Zurigo.
La storia parte da Como, dove vive Filippo, un giovane artista con moglie e figlio appena nato. Subito dopo l’8 settembre il giovane sente l’urgenza di fare qualcosa. Il re è fuggito, l’Italia è allo sbando, il Nord Italia è praticamente in mano ai tedeschi con il supporto dei repubblichini di Salò. L’artista non sa (non vuole) stare indietro. Bisogna fare, bisogna mettersi in gioco. Lascia la famiglia, e cerca di avviarsi verso le montagne, volendo unirsi ai reparti combattenti.
Ne seguiamo le vicende, il timido cercare contatti, le reticenze (ovvie) di chi, essendo in guerra, sa che ci sono molti infiltrati, molti delatori, molte difficoltà nel trovare il giusto modo di rapportarsi agli altri. Tutte vicende che la mia famiglia, piena di partigiani e medaglie varie al valor militare, conosce e si racconta da decenni.
Con tutte le difficoltà del caso, il nostro, comunque, riesce ad unirsi ad un piccolo gruppo di partigiani di montagna. E ne seguiamo le vicissitudini: le guardie, le armi, gli scontri a fuoco, i rastrellamenti. Si accenna al cameratismo di montagna, ma anche a tutti i dubbi che vengono su di sé e sui propri compagni. Filippo è lì, si integra nel gruppo, ma rimane spesso incerto, in particolare verso di sé. Si chiede spesso se avrà paura negli scontri, se avrà paura della morte, se, avendola di fronte, avrà il coraggio di guardarla negli occhi o se abbasserà lo sguardo.
Non mancano anche gli accenni a tutti i possibili intrighi ed incastri. Le brigate garibaldine, i “rossi”, i liberali, gli azionisti. Il pensiero di un dopo che non si sa se e come arriverà (e purtroppo sappiamo noi come è arrivato). Intanto si fa l’ultima azione, il comandante viene ferito, forse a morte, ma seriamente di sicuro. L’unica è cercare di attraversare la frontiera verso la Svizzera. Traversata descritta con una prosa asciutta e che prende molto.
Come detto, un libro forte, in presa diretta, a volte immaturo in alcune uscite. Io, pur non condividendo sempre tutte le affermazioni, penso che sia in ogni caso uno dei tanti libri che bisognerebbe leggere e far leggere ai giovani, a tutti quelli che non solo non hanno vissuto quegli anni (neanch’io c’ero), ma che non ne hanno neanche sentito parlare in famiglia o in amicizia.
Come dice Liliana Segre, anche se in ambito diverso, sono tutti momenti che vanno scomparendo ad uno ad uno, insieme ai genitori, ai nonni che ci lasciano.
Noi abbiamo ancora due fiammelle, in famiglia, che pur flebilmente, ci rammentano quegli anni, quelle preoccupazioni, quei dolori.
Ma alla fine, riprendiamo con Filippo il coraggio a due mani: quando bisogna decidere da che parte stare, è doveroso schierarsi. E, come Filippo, schierarsi dalla parte giusta.