Con la sua scrittura asciutta ed essenziale Annie Ernaux, nella sua esigenza di elaborare il lutto, ripercorre la sua storia, quella della sua famiglia, quella di suo padre dai suoi ricordi di bambina fino alla inaspettata malattia e conseguente morte del genitore esplorando i suoi sentimenti, l'incomunicabilità, le incomprensioni, la difficoltà nel rapportarsi e l'amore forte che si cela dietro tutte le difficoltà.
L'ho vissuto come una sorta di catarsi, l'impegno e la difficoltà di calarsi in ricordi dolorosi per comprenderli, elaborarli, imparare ed uscirne più forte.
Mi è piaciuto forse proprio per la scrittura diretta, talvolta cruda, senza tanti giri di parole..
“Mi portava da casa a scuola sulla sua bicicletta. Traghettatore tra due sponde, con la pioggia e con il sole. Forse il suo più grande motivo di orgoglio, o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l'aveva disdegnato”.
Normandia, un padre contadino, operaio, commerciante. La madre al suo fianco. La figlia scrive con memoria onesta e elegante essenza verbale. Riesce a emozionare, a trasmettere la percezione di quel legame intimo e poetico, di una sensazione esistenziale e passionale. Senza furore di aneddoti né dramma di psicologiche saggezze o ancestrali conflitti. Un confrontarsi che sta al di qua del pudore e che modera l'introspezione che indaga nel tessuto universale. L'autrice ha insegnato e conosce il potere del giudizio e il discrimine minore che traccia nella coscienza. Non si risparmia, ma nemmeno si spende: semplicemente si abbandona alla forma del ricordo, all'ambiente popolare nel quale nasce. Il racconto segue curve affettive, le estremità critiche e silenziose della relazione filiale; comunica sottomesso alla trasformazione del tempo, nell'esistere dei soggetti, così dominati. Annie Ernaux con questo breve testo, pubblicato da Gallimard nel 1984, rievoca la formazione di una identità femminile che si emancipa in un contesto culturale orgoglioso e discreto, semplice e timoroso, imbarazzato nell'ascesi e nella povertà; dove una donna si vergogna perché “lavora con la testa” e nasconde la gratitudine dello studio. La scrittrice di Lillebonne cerca il senso delle occasioni perdute, il dolore del rimpianto, quel che di inespresso che è nel cambiamento, il volto rivelato nell'eredità personale. Si sente la fatica del liberarsi dalla colpa, del rivendicare un'autonomia negata. Il padre è un carattere che confessa l'incapacità a vivere e si affida a una speranza che non può riconoscere, sacrificandosi nel dono di una scelta. Ernaux usa uno stile anteriore, mette fra la penna e il sé sulla pagina una distanza oggettiva che crea una storia di fiducia e innocenza e nel linguaggio lirico ci consegna un segreto fedele al riparo necessario, alla comune salvezza, alla sorvegliata destinazione.
Storia di quelle che fanno male. Annie Ernaux ci racconta, in un’intima confessione, del suo rapporto con il padre cercando di trarne un bilancio dopo la sua morte e si trova così a raccontare la vita di uomo qualunque, senza grandi aspirazioni se non quelle comuni a molti di noi che non siano: la ricerca di un'occupazione sicura, un certo benessere economico, un futuro per i propri figli. Sono persone queste che la scala sociale relega in ghetti ben precisi, decisamente un gradino sotto la borghesia e poco sopra la soglia di dignità e sopravvivenza, ghetto dal quale lei stessa riesce ad uscire con il tacito aiuto della propria famiglia.
“Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto”.
Riemergono così in un’atmosfera nebbiosa e rarefatta i ricordi di un’infanzia e di una gioventù passate con una persona che aveva fatto della sua semplicità e delle sue piccole manie la sua ragione primaria di vita.
”È nel modo in cui le persone si annoiano nelle sale d’attesa, si rivolgono ai figli, salutano sui binari della stazione che ho cercato la figura di mio padre. La realtà dimenticata della sua condizione l’ho ritrovata in personaggi anonimi incontrati qua e là, portatori a loro insaputa dei segni della forza o dell’umiliazione.”
Per poi prendere atto alla fine che la crisi di incomunicabilità con il padre era da ricercare in qualcosa di artificioso e procurato, voluta soltanto dalla forzatura delle diverse ed inevitabili visioni delle cose, e rendersi conto di questo solo a distanza di anni quando i ricordi passati al setaccio della ragione rendono finalmente giustizia alla realtà degli avvenimenti passati.
“Ho finito di riportare alla luce l’eredità che, quando sono entrata nel mondo borghese e colto, avevo dovuto posare sulla soglia.”
Capire finalmente che la vita di un uomo qualunque può forse misurarsi con la stessa dignità di qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra, di qualsiasi estrazione sociale, che la sua storia, i suoi rapporti umani sono preziosi come quelli di noi tutti, anche se non procureranno grandi svolte nella storia dell’umanità.
È per questo che questa storia fa male, leggere e riconoscerti in cose che anche tu provi tutti i giorni, in una battaglia di cui nessuna cronaca mai si interesserà , sapere di correre il rischio di combattere una vita, senza avere la certezza di compiere almeno una delle cose che ti sei prefisso nel tuo percorso terreno, la semplice e ineludibile tragedia di un uomo qualunque! Ecco, è per questo che questa storia almeno a me forse qualche problema lo crea…
“Forse il suo più grande motivo di orgoglio, o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l’aveva disdegnato.”
P.S. Questa lettura l’ho rapinata da un vicino di cui avevo letto il suo commento, ringraziamento doveroso e… Anobii forever...